31/10/01

Droga e slogan

Dopo le esternazioni di questi ultimi giorni, a proposito di droga, noi delle comunità dovremmo essere contenti. Le comunità saranno - secondo la linea del nuovo governo - più libere e tutelate; la guerra alla droga sarà più forte; la salvezza dei ragazzi più vicina.
Ma la "lotta" alla droga, che non inizia da domani, dovrà tener conto, di nodi che nei proclami recenti non hanno avuto spazio. Li ricordo per concretizzare, oltre gli slogan, una strategia efficace.
Il primo è la lotta al traffico di stupefacenti. Non è stato detto nulla di specifico a proposito: grave errore. L'ingresso dell'euro faciliterà purtroppo il riciclaggio di denaro sporco. I traffici illeciti giocheranno con le conversioni euro-dollaro, lasciando ancora meno tracce.
L’“afgano” (ottima eroina secondo i consumatori) presto invaderà tutti i mercati d'occidente, per sostenere la guerra dei talebani. La cocaina (il cui consumo è in crescita) è offerta sempre a minori costi.
Senza un'azione europea e mondiale, la "droga" continuerà a mietere vittime. Dopo Schengen i confini nazionali di fatto sono inesistenti: quale raccordo tra gli stati europei? E con quali risultati se già in alcuni paesi di fatto l'uso di droghe leggere (vedi Olanda, tra poco l'Inghilterra) non costituiscono più reato?
Il secondo nodo sono i consumi delle giovanissime generazioni. I ragazzi più giovani tendono a consumare di tutto: alcol, amfetamine, ecstasy, marijuana, hascish, cocaina. Rimanere fermi alla distinzione tra droghe leggere (da legittimare o proibire) e altre sostanze è un falso problema. La vera battaglia è disincentivare i consumi dannosi, senza distinzioni. La lotta al tabagismo, su scala mondiale, sta portando i suoi frutti: se non si fa altrettanto per le sostanze genericamente inebrianti, la partita è persa. Disincentivare i consumi inebrianti, però (si pensi alla pubblicità degli alcolici), pone gravissimi problemi di strategie "culturali" e commerciali.
Terzo serio problema sono i disturbi "psichiatrici" dei ragazzi tossicomani. Nelle comunità arrivano sempre più giovani che oltre ad essere dipendenti, mostrano veri e propri disturbi della psiche. I tecnici discutono sulla "doppia" diagnosi (da dipendenza e psichiatrica); il sospetto è che spesso i consumi di droga servano a lenire le sofferenze personali con un automedicamento. Se così fosse, le strategie di recupero si fanno ancora più complesse e difficili.
La discussione di questi giorni si è tutta concentrata su comunità sì e servizi pubblici no. E' evidente che l'attenzione, scegliendo in così tanti interlocutori e palcoscenici inadeguati, anche se amici, si è così svilita a piccola esternazione di "politica interna".
Le proposte sono di altra portata e gli impegni ben più vasti e seri. Tra queste ricordiamo:
- strategie di lotta al traffico, in ambito nazionale, europeo e internazionale;
- raccordo tra le legislazioni europee per la disincentivazione ai consumi di sostanze nocive;
- politica organica propositiva "giovanile", senza appelli patetici e generici alle famiglie e alla scuola;
- ricomprensione dei modi di consumo e di conseguenza delle risposte dei servizi.
I ragazzi tossici in Italia sono valutati in 300.000; 145.000 sono in carico ai servizi pubblici, di cui quasi 90.000 hanno più di 30 anni; 19.000 sono in carico alle comunità.
Discuterne nella trasmissione del buon Vespa, è inutile e inopportuno.

12/10/01

I cattolici e la guerra

Infuria la polemica - si fa per dire - sul pacifismo cattolico, dopo l’annuncio della guerra da parte di Bush contro il terrorismo, con riferimenti, per l’Italia, alla partecipazione di ieri dei cattolici al G8 di Genova e alla marcia della Pace di Assisi, appena domani.
La risposta cattolica, per la tradizione, per i martiri dei secoli e soprattutto per il Vangelo è la presa in carico del male e quindi il perdono.
Nessuna vendetta, ritorsione, difesa sono possibili se si segue il fondatore del cristianesimo, morto ingiustamente, senza difese.
Il riferimento al Dio cristiano misericordioso non può essere relegato a scelte opzionali e personali. Ogni qual volta qualcuno procura il male, la strada evangelica è: parlagli, confrontalo nella comunità, allontana da te il male, ma a nessuno è permesso di esprimere giudizi e tanto meno disporre della vita del nemico.
Sappiamo bene che storicamente non sempre è stata seguita questa strada.
Si è fatto appello a mille ragioni che hanno permesso agli stati cristiani, di fare “guerre” giuste e anche ingiuste.
La drammaticità degli ultimi avvenimenti pone, ancora una volta, la domanda.
Ancora oggi cristianamente la risposta è la stessa: nessun missionario perseguitato o a rischio di vita si è mai sognato di armarsi, di difendersi, di aggredire e annientare il nemico. Il missionario martire ha cercato semplicemente di essere evangelico e per questo spesso è dichiarato “santo”.
Questa posizione, che può sembrare radicale, in realtà è la sola posizione teologicamente corretta.
Diverse sono le considerazioni “politiche” che un popolo o un gruppo di popoli può fare di fronte ai propri nemici. In questo caso sono altri i principi morali – che pure debbono esistere – che debbono dirigere le azioni di uno stato di fronte alle aggressioni.
Se in queste considerazioni si inserisce il cattolico, la sua presa di posizione è quella appena espressa. Può essere giudicata come vigliacca, utopistica, inconcludente e con mille altre definizione, ma quella è e quella rimane.
Ogni qual volta il cattolico piega il suo credo a considerazioni “umane” tradisce la sua fede e il suo credo.
Il credo cattolico non è manipolabile, perché fa riferimento a Dio che solo dispone del bene e del male.
Chi tentasse di coinvolgere in considerazioni “umane” il credo cattolico, fa un brutto servizio a se stesso e al cattolicesimo.
Forse è arrivato il momento, anche in Italia, di rispettare posizioni che possono non essere condivisibili, ma è cosa peggiore, per piccoli calcoli contingenti, piegare fedi e sconvolgerle.
Ma probabilmente, in questa manipolazione, risiede la radice della debolezza del cattolicesimo occidentale di fronte ad altri fedi “nemiche”.
A Genova ieri, ad Assisi domani i cattolici sono chiamati ad una radicalità senza eccezioni, noncuranti che altri giudichino diversamente e agiscano in modo difforme: nessuno infatti oggi pensa che in Italia o in Europa uno Stato debba dichiararsi “cattolico”.

12/09/01

“Shahid”

Nella tragedia dell'attentato d'America, è difficile accumulare alle migliaia di vittime innocenti, coloro che hanno procurato fisicamente l'ecatombe.
Li chiamano "shahid"; sembra che li addestrino fin da ragazzi a morire per la causa. Sono numerosi se in Palestina prima e ora in America, sono capaci di decretare la propria e l'altrui morte, in un sacrificio totale per la causa. Sono protetti e circondati dall'affetto dei loro cari.
In tutto l'occidente non si troverebbero cinquanta persone dedite alla morte per nessuna nobile causa e per nessun prezzo.
Eppure i dirottatori, con le loro crudeltà, non si sono tirati indietro di fronte alla loro stessa morte sicura.
Il fenomeno del terrorismo arabo non si riduce dunque solo alla dimensione politica di popoli che si sentono oppressi, ma ha radici talmente profonde da impressionare la mente e il sentire della cultura occidentale.
E' la prima riflessione da fare di fronte alla tragedia dell'America: è in atto uno scontro di culture, prima che di diritti. Per questo la lotta al terrorismo non può ridursi solo a percorsi di polizia internazionale. Occorre capire che cosa sta avvenendo: cosa ancor più difficile, non essendoci "pentiti o traditori" che rivelino logiche e percorsi.
Nella fase attuale non si riesce nemmeno a comprendere se gli atti terroristici sono solo "rivendicazioni", anche se violente e crudeli, di ingiustizie subite, vere o presunte, o se invece fanno parte di quella "guerra santa" contro l'odiato occidente.
In questa seconda ipotesi la sfida sarebbe veramente mortale: ne andrebbe la sopravvivenza dell'occidente o della cultura araba.
Soltanto gli stessi arabi, con i loro valori e la salvaguardia della loro cultura, possono guidarci nella comprensione.
Per questo è necessaria l'apertura dell'occidente per il loro rispetto, riflettendo sulle proprie responsabilità, ma i più saggi e prudenti arabi debbono farci comprendere che cosa effettivamente stia avvenendo.
Sembra un assurdo: ma proprio dopo l'attentato in America, con migliaia di morti, è necessario il dialogo. Se questo non avvenisse, la spirale della violenza avrebbe il sopravvento. Ma la violenza che deriva da motivazioni di fede è difficile da fermare, perché ha, dalla sua parte, la pretesa della verità. Crea martiri e con i martiri aumentano l'adesione e la forza alle proprie idee.

05/09/01

Il “movimento” è già frantumato

A oltre un mese dai fatti del G8 è tempo di verifica all'interno del movimento anti global.
L'attenzione è stata posta sulla violenza dei fatti di Genova. La questione non è solo questa. Stanno emergendo, con tutte le loro diversità, le anime che hanno permesso quell'evento.
In quel movimento hanno confluito tre anime, tre modi di fare "contestazione".
La prima è quella violenta delle tute nere. Con questa parte del movimento non è possibile il dialogo: hanno fatto della violenza il loro modo di "essere"; non sappiamo se è un modo di fare politica o semplicemente un modo di esprimersi. Alcuni tratti dicono che non si distinguono dagli ultras degli stadi o dai naziskin. Esprimono disagio, esplodendo in violenza sistematica, senza ricerca di dialogo e di mediazione.
La seconda anima è quella "politica": dalle tute bianche ai movimentisti.
L'oggetto della contestazione è il sistema politico dei governi occidentali. I soggetti e l'oggetto della contestazione sono loro stessi. Si pongono come interlocutori delle istituzioni che rifiutano, con i loro contenuti politici. Chiedono di diventare parte sociale e si contrappongono ai sistemi vigenti. Fanno politica, in quanto vogliono rappresentare una forza politica diversa da quelle esistenti. Genova, la Fao, la Nato sono occasione di una ipotesi politica da contestare, in Italia e in Europa.
Per istinto lo ha capito il governo in carica che concede dialogo solo per limitare l'ipotesi violenza, ma non è disposto a nessuna concessione sul piano dei contenuti, in quanto il movimento è un vero e proprio "nemico politico".
La terza anima è quella cattolica: aveva aderito a Genova perché ai movimenti cattolici interessava far emergere le "contraddizioni" planetarie: il debito, la fame, la salute, la giustizia. La loro presenza a Genova era possibile in quanto occasione di sensibilizzazione e di cambiamento per i problemi dei popoli.
I nodi delle diversità sono esplosi. Il movimento perderà la componente cattolica, in quanto non interessata alla costituzione di un movimento politico, oggetto delle attenzioni dei centri sociali e della sinistra movimentista. La fame nel mondo o la vendita delle armi per i movimenti cattolici, non può essere ridotta alla costituzione di "nuovi" equilibri politici all'interno dei sistemi occidentali.
Non solo: i movimenti cattolici vanno alla ricerca del cambiamento delle coscienze, quale premessa di proposta alternativa. Non entrano direttamente nell'agone della politica, con strumenti di lotta politica.
A tutt'oggi non si vedono spiragli di soluzione: il movimento continuerà sulla sua strada politica; la componente cattolica ritornerà alla sua opera di sensibilizzazione delle coscienze.
Il dialogo andrà avanti stancamente, tutti nel dichiarare che ogni cambiamento esige adesione profonda delle coscienze e strumenti di lotta politica adeguati, ma la frattura del movimento è seria.

31/08/01

Milingo, il danno alla religione

Chissà se la tragicommedia di Mons. Milingo e Maria Sung sarà terminata? Le agenzie hanno dettato la fine ingloriosa di una relazione che non si è compreso bene di che cosa si trattasse.
Un vecchio arcivescovo guaritore incontra e sposa una terapista coreana di una grande setta nord americana.
Data la pruriginosità della vicenda, sulla quale i giornali e le tv hanno abbondantemente inzuppato il pane per tutta l'estate, sarà già pronto qualche "geniale" romanziere o regista, capace di arricchire di suspence la storia.
La figura più brutta è stata fatta dalla Chiesa cattolica che, con sufficiente autorità, ha fatto capire di essere interessata alla soluzione del pasticcio, senza dire esplicitamente di che cosa si trattasse. Le ipotesi abbondano: coinvolgimento di Milingo da parte di una potente setta; rivendicazione dello stesso Milingo ad una attenzione maggiore alla sua persona; semplice imbambolamento, in clima surreale.
La storia è stata trattata con "serietà" da alcuni prelati, coinvolgendo anche il Papa, il quale non poteva che chiedere all'Arcivescovo di ritornare sui suoi passi, contravvenendo a tutta la prassi (risolutezza, riservatezza, scarsa comprensione) nei casi in cui un sacerdote abbandoni il sacerdozio, semplicemente "attentando" al matrimonio.
La lezione da trarre è abbastanza semplice. Ritornare alle cose serie della vita: chiedere perdono e scusa per come è stato trattato il vangelo e la fede; risolutezza maggiore nel rispetto delle regole; silenzio pietoso su una pietosa vicenda.
Il danno derivato alla religione cattolica è ben più pesante dei sorrisetti e delle battute al bar, abbondantissimi in questi giorni. Ancora una volta sembrano aver ragione coloro i quali - sempre più insistentemente - dichiarano che la religione è qualcosa di irrazionale. Varrebbe per i bambini e i vecchi, mentre la vita, con le sue regole, sarebbe appannaggio della razionalità, dell'economia e della politica. L'equazione vescovo guaritore, vescovo innamorato sembra aver rafforzato questa opinione.
E' una conclusione a cui, per tutto altro versante, sono arrivati quanti hanno rimproverato ai gruppi cattolici di essere stati presenti a Genova, suggerendo loro di dedicarsi alla preghiera.
Un filo continuo direbbe: occupatevi dell'irrazionale, lasciando perdere le cose serie della vita. Non sono solo gli anticlericali a suggerire questo: sembra siano anche alcuni cattolici praticanti. La riprova della "crisi" del cristianesimo occidentale.

16/07/01

Meglio Genova deserta

Man mano che si avvicinano i giorni dell'appuntamento a Genova del G8, fortissima si fa la convinzione di non dover andare a manifestare.
Sta infatti prevalendo, senza freni e ritegno, la teatralità della manifestazione.
La città ripulita, i panni da non stendere, le facciate dei palazzi brutti ricoperti, la chiusura delle stazioni, zona rossa e zona gialla, polizia e carabinieri, in un crescendo di drammatizzazioni che nulla hanno a che fare con la sicurezza.
Il tutto - è la giustificazione - per proteggere gli otto "grandi": talmente grandi che, proprio in questi giorni i giornali si occupano di cosine che riguardano alcuni di loro che proprio grandi non sono, ma sembrano appartenere a "ladri di polli".
Nei 25 anni che hanno visto i "grandi" riunirsi, lo spettacolo è stato sempre lo stesso. Apparenze, teatralità, nullità di fatto: nel tempo si sono scoperti interessi personali, gravi responsabilità di gestione, addirittura denunce per corruzioni, connivenze e favori.
Gli scienziati dell'economia dicono che non sono loro i padroni del mondo: i padroni abitano altrove e non fanno ritrovi pubblici; usano la telematica, vivono nell'anonimato, decidono rapidamente, spostano risorse tali da decretare i destini di interi popoli. I rappresentanti della politica non sono nemmeno i "portavoce" di chi conta. Nonostante questo si autocelebrano, fanno di tutto per apparire, spendono soldi degli altri per farsi belli.
Le organizzazioni del Genoa social forum hanno posto problemi reali del mondo: le desertificazioni, la fame, le guerre, le malattie.
Forse, per la prima volta, si è fatto capire che i problemi del pianeta appartengono a tutti e sono seri. Altro non rimane da fare: continuare a far comprendere che oramai la vita di un popolo dipende dalla vita di tutti gli altri.
Sarebbe bello che Genova fosse deserta, completamente deserta, come quando fanno brillare una vecchia bomba, con la gente a mare, a far festa, con migliaia di poliziotti a sbadigliare, a sudare inutilmente. Abbandonare gli otto ai loro regali, alle loro riunioni, alle loro manie, tutto per far capire che rappresentano le loro pochezze.
I giornalisti non saprebbero più che scrivere: hanno già raccontato tutti i contorni degli arrivi, dei regalini, del menu, dei vini e dei dolci. Non differentemente da una festa di matrimonio o di prima comunione.
Se poi i collegamenti televisivi e i tg fossero disertati, non farebbero più alcun G8. Perché le riunioni dei "grandi" servono purtroppo solo a chi le fa. E senza spettatori, lo spettacolo sarebbe annullato.

06/07/01

Il G8 felice

Fa impressione il grande numero di associazioni coinvolte nel Genoa Social Forum.
Rappresentano un vasto popolo di gruppi associati in forme legali e spontanee. Talmente numerosi che quasi si stenta a capire le linee di azione dei tanti gruppi che contestano l'incontro dei potenti del G8.
Esprimono tutti il rifiuto alla globalizzazione. In estrema sintesi al cosiddetto "popolo di Seattle" non sta bene che sia il mercato, con le sue leggi del massimo profitto, a governare il mondo.
In questa presa di posizione dovrebbe ritrovarsi la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Quasi nessuno può essere contento che siano pochi i ricchi e tutti gli altri poveri.
Nonostante questa elementare verità, il popolo dei "contestatori" è visto come un pericolo e come un rischio, anche da chi non ha nulla da guadagnare dalla globalizzazione.
La spiegazione è complessa, ma non impossibile. Il primo rifiuto è quello della violenza. Tra i contestatori c'è chi non disprezza la violenza, anzi in qualche modo è pronto allo scontro, se non alla provocazione. Di fronte alla violenza il rifiuto non può che essere netto. Si può tranquillamente dichiarare che la violenza è un buon alleato di chi si dice di voler combattere.
Il secondo motivo è la destabilizzazione dell'ordine costituito. Spesso, nel proprio precario equilibrio, si ha paura di cambiamenti che possono turbare piccoli e grandi privilegi: più facile curare la propria serenità, anche se piccola piccola. Non tutti sono in grado di avere uno sguardo ampio delle sorti del mondo.
Infine una specie di autocommiserazione impedisce di guardare mali più gravi. A quanti fanno notare ingiustizie e disparità, molti reagiscono invocando le "proprie" disgrazie, concentrandosi sui propri problemi e dolori.
A tutti noi spetta il compito e la pazienza di far capire che la contestazione non è fine a se stessa, ma è orientata a una giustizia e ad un benessere maggiore per tutti, compresi i popoli benestanti.
Il non rispetto delle persone, la loro schiavizzazione, le guerre inutili e fratricide sono mali anche per chi, lontano, si sente al riparo da simili eccessi. La terra può e deve essere governata con maggiore giustizia e umanità.
Non abbiamo nulla contro nessuno: desideriamo che i bambini non muoiano di povertà o di malattie curabili; che i fanciulli non siano schiavizzati; che i lavoratori possano vivere del loro lavoro, che le donne siano rispettate nel loro essere mogli e madri; che i vecchi possano continuare a campare nelle proprie case.
Chiedere tutto ciò non è contestare: è semplicemente voler contribuire ad una vita dignitosa e felice per tutti.

06/06/01

Il futuro esercito dei mercenari

Il Corriere della sera di oggi riporta la "crisi" dell'arruolamento di volontari per le forze armate.
Non sono stati sufficienti né i bandi di concorso "normali", né quelli eccezionali che Esercito, Marina e Aeronautica hanno attivato. Nonostante "i prestiti" di Carabinieri e di Guardia di Finanza, gli organici non sono coperti: quest'anno sono stati arruolati 2.274 persone, contro i 3.530 uomini necessari. Per avere un esercito di professionisti che la legge ha previsto per il 2006, occorrerebbe arruolare ogni anno 7-10 mila volontari: gli addetti ai lavori hanno il fondato timore che non si riuscirà a raggiungere la copertura degli organici. La "crisi delle vocazioni" dovrebbe porre domande a chi, con trionfalismo fuori luogo, ha voluto la riforma delle forze armate e l'ha ottenuta. Abolizione della legge sull'obiezione di coscienza, creazione del servizio civile, professionalizzazione dell'esercito.
Qualcuno (il generale Caligaris) ha suggerito di arruolare chiunque: immigrati e... anche gay. Di fronte alla crisi delle vocazioni, occorre chiudere un occhio e, domani, tutti e due.
I gestori della riforma, militari e politici, dovrebbero chiedersi il perché della crisi. Li aiutiamo noi: smantellato il senso di solidarietà che il servizio di leva e, in alternativa, quello del servizio civile, suggerivano, è stato introdotto quello della professione. Nessuno ha capito - compresi i militari - che la professione militare non è appetibile in quanto inutile o rischiosa, comunque onerosa.
Avranno l'unica alternativa di ricorrere ai "mercenari": italiani e stranieri, normali e speciali, uomini e donne. Dovranno alzare - ma di molto - il prezzo dei compensi. Saranno proporzionati alla rarità della domanda. Copriranno così gli organici. L'Italia ha ricordato "grandi capitani di ventura": ora con un signorotto, ora con l'altro. Non bisogna poi meravigliarsi troppo, se tutto è diventato merce, compresa la difesa della patria.

15/05/01

Senza illusioni

La vittoria ampia della Cdl ha mostrato chiaramente che il programma del centro-destra è stato accolto come il migliore possibile per il futuro d'Italia. Invocare personalismi, televisioni, campagne pubblicitarie non ha grande senso. E' vero che sono state determinanti per la vittoria, ma tutti gli strumenti usati sono stati utilizzati per dei contenuti che, sostanzialmente, tendevano a tutelare i ceti benestanti d'Italia. Al sogno del benessere hanno creduto anche coloro che certamente non erano e non sono in condizione di benessere.
E' un meccanismo molto antico - i poveri credono ai ricchi - che ha funzionato in Italia, ma che funziona anche in altre parti del mondo.
A partire da questa vittoria, a tutte le organizzazioni di non profit restano due strade. La prima - già esplicitata da alcuni in questi primi momenti – è quella di strappare qualche concessione al futuro governo. Dichiarare che si aspettano le cose da fare è inutile. Il centro destra ha detto che cosa farà: in questo futuro le fasce marginali della popolazione non hanno spazio, perché sono ritenute irrilevanti e alcune anche pericolose. Per sè, in quanto non esprimono risorse, per gli altri in quanto costituiscono solo problema.
Aspettare significa, in questo caso, solo chiedere qualche piccola-grande concessione per la propria sopravvivenza.
E non è escluso che il centro destra non la conceda. Ma per chi opera nel sociale ciò non può essere sufficiente: per il semplice fatto che si autorizza una specie di assistenzialismo di ritorno che porta dalla parte opposta del richiedere il rispetto dei diritti.
Avevamo già detto che in questa campagna elettorale, i soggetti marginali non erano stati protagonisti, ma nemmeno "oggetto" di attenzione. La vittoria della Cdl conferma quel giudizio e mette la parola fine ad ogni illusione.
Rimane dunque una seconda strada: quella di riprendere in mano i contenuti e l'esigibilità dei diritti sociali e, proprio in virtù del clima generale, non mollare la presa.
Molto prima di quanto si immagini, si capirà quali sono gli interessi" del ceto medio; occorrerà non far dimenticare i diritti di tutti i cittadini.
Da qui la riflessione e l'impegno serio, apparentemente sterile, ma indispensabile, perché i soggetti deboli non siano abbandonati alla deriva.
Un impegno duro e severo: per rivedere la propria storia, per seguire l'andamento delle vicende politiche e sociali, per ridestare la coscienza critica e vigile di quella parte della popolazione che crede ancora al sogno dell'uguaglianza e delle pari opportunità.

07/05/01

Elezioni: poveri e irrilevanti

Pur nella vivace campagna elettorale, salta all'occhio "lo stile comune" che i due poli, insieme agli schieramenti minori, hanno assunto nei confronti degli elettori, con i linguaggi usati e i programmi proposti.
Come interlocutori sono scomparse tutte quelle persone che, per situazione, condizione sociale, cultura, sono "poveri"; con linguaggio internazionale, potrebbero essere individuate come "popolazione vulnerabile": donne, gente del sud, famiglie povere, pensionati, malati, categorie a rischio, stranieri.
Non sono stati considerati "soggetti", ma nemmeno "oggetti" di attenzione.
Eppure sono milioni e milioni di persone: oltre sette milioni di poveri censiti; due milioni e mezzo di disabili; 600 mila malati di mente; un milione e mezzo di stranieri; oltre mezzo milione di malati cronici seri; 600 mila lavoratori precari.
L'attenzione nei loro confronti, pure presente con qualche accenno nei programmi (Legge Tremonti del sociale per il Polo delle Libertà; welfare state per l'Ulivo) fa emergere l'irrilevanza degli interventi stessi rispetto alle grandi politiche necessarie al paese. Non fanno parte nemmeno della categoria degli “indecisi”, alla quale spasmodicamente le forze politiche dicono di rivolgersi.
Al di là del dispiacere di simile atteggiamento, la preoccupazione diventa grande per una svolta epocale nella vita politica della nostra Italia: il consenso sembra essere riservato a un numero ristretto, sempre più ristretto di persone: il dubbio è che stiamo ritornando al voto per "censo". Un censo che non è solo economico, come nell'Ottocento, ma anche culturale, di stili di vita e di relazione.
Se questa tendenza si rafforzerà, due sono le conseguenze: la prima che i vincitori risponderanno ad un "solo" tipo di elettore, quello appunto che hanno scelto come interlocutore adeguato; la seconda è che esisterà una popolazione marginale nemmeno degna di attenzione: costoro avranno diritto solo alla sopravvivenza silenziosa, senza diritti e senza soggettività civile.
La riprova di questa tendenza è nello stesso atteggiamento che hanno assunto i grandi mondi del volontariato, del privato sociale, di quanti fanno da cerniera tra la povertà e la normalità.
Silenziosi e acquattati, in attesa dei vincitori, senza più la forza e il coraggio di rivendicare rispetto e dignità per tutti, pronti a girare per sé eventuali benefici di legge.
Non si tratta - come è facile immaginare - di tutelare ancora qualche categoria svantaggiata, ma di sapere qual è l'impalcatura dei rapporti tra le persone in un paese civile.
I modelli proposti dai due poli sono certamente molto diversi: il primo ha tutte le caratteristiche dell'onnipotenza del denaro, del potere, dell'immagine; il secondo è più attento alla socialità e all'uguaglianza. Il limite invalicabile rimane il rispetto di tutti, senza altra considerazione. Rinunciare, in politica, a questo principio significa ritornare indietro, terribilmente indietro.

06/04/01

La vergogna psichiatrica

La giornata mondiale della salute mentale ripropone, ancora una volta, uno degli aspetti più problematici, dolorosi e ambigui della tutela della salute in Italia. 
Passi lenti verso una riforma, annunciata con grandi battaglie ideologiche e grandi evviva nel 1978, con la celebre legge 180 (legge Basaglia) e naufragata nei meandri di ritardi, perplessità, poteri (occulti e manifesti), abbandoni. 
Solo recentissimamente è stata decretata la fine dei manicomi (non chiusi ovunque); la sofferenza psichiatrica rimane in carica, sostanzialmente alle famiglie. 
Tutta una serie di strutture intermedie (comunità alloggio, comunità protette, centri diurni, appartamenti, centri riabilitativi) esistono e non esistono. 
Un po’ come per la lotta al dolore, l'Italia rimane indietro non si sa bene perché: una certa sofferenza che deriva da disturbi psichiatrici sembra essere "doverosa" in nome della normalità. 
Senza che, per tutto questo, si riescano a capire motivi, tempi e risvolti dei ritardi.
Gli indugi vanno rotti a nome della dignità delle persone: si potrebbe osannare ai passi avanti nella cura della sofferenza psichiatrica, con i risultati raggiunti. Non è il caso, perché la cura dei "nuovi matti" è ancora incerta e precaria. 
Non spetta a noi attribuire responsabilità: a ciascuno la sua. Agli addetti ai lavori, alle istituzioni, alla coscienza civile, alle organizzazioni sociali. 
Non è possibile che di fronte a malattie che coinvolgono gli equilibri di intere famiglie, persistano mancanze e incertezze. A meno che, la razionalità, virtù principe della cultura occidentale, ne disprezzi la mancanza. In questo caso, sarebbe la fine, perché non esisterebbero alternative. 
Proprio la razionalità e la dignità delle persone, pietre miliari della civiltà, ci impediscono di considerare le persone, con malattie psichiatriche, "cittadini di secondo ordine".

20/03/01

Come i "garzoni" di una volta

Con una strana scala, il Centro europeo di monitoraggio sul razzismo e la xenofobia (EUMC) colloca l’Italia tra i paesi con un alto tasso di tolleranza passiva. Una posizione migliore dell’intolleranza e l’ambivalenza, ma certamente inferiore alla posizione della tolleranza attiva, che significa attenzione e integrazione.
In parole povere la nostra Italia direbbe: vengano gli stranieri, lavorino e non disturbino. Se hanno problemi, se li risolvano. Se sono delinquenti, siano cacciati.
Al di là delle parole, il centro di monitoraggio sembra abbia centrato l’atteggiamento che, nei vari luoghi, si sperimenta a proposito di stranieri. Da una parte industriali, commercianti, famiglie che hanno “bocca buona” nell’assumere stranieri soprattutto nei luoghi di lavoro pericolosi e faticosi e dall’altra il “no problem” per tutti gli altri aspetti della vita dei lavoratori: se hanno o non hanno famiglia, se hanno casa, come si arrangiano nei trasporti, se conoscono la lingua, dove i figli vanno a scuola e così via.
Quando negli anni ’60 ci fu la grande industrializzazione nel nord ovest d’Italia, ci fu, se non subito, una qualche preoccupazione per la casa destinata a calabresi, pugliesi e siciliani; furono istituite delle scuole; un qualcosa si attivò.
Di fronte a una immigrazione più massiccia e più difficile, un grande silenzio: nemmeno imbarazzato e senza alcun’ombra di sensi di colpa. Probabilmente è la globalizzazione furba, intesa a proprio vantaggio, che dà tranquillità. Una donna moldava costa qualche cosa più di un milione; ha diritto a mezza giornata di riposo, a vitto e alloggio e deve accudire tutta la settimana la nonna o il nonno malati. Se questa donna ha figli, problemi, sta fuori casa mesi e mesi, non è di competenza dei privati e sembra nemmeno dello Stato.
Ritorniamo a una forma un po’ più raffinata, ma sostanzialmente uguale, a quella “schiavitù” legalizzata che esisteva nelle nostre campagne, quando si assumeva a proprio servizio un ragazzo povero, un “garzone”, gli si dava da mangiare e lui cresceva con vacche e maiali, perché in questo consisteva il patto.
Democrazia, accoglienza, parità di diritti, rispetto sono tenuti lontani da una concezione della vita che, ieri come oggi, distingue tra ricchi e poveri. Con i primi a dettare le leggi e farle rispettare e con i secondi che, di fronte alla fame, possono solo obbedire.

09/03/01

La paura delle grandi sfide

Difficile fare un bilancio complessivo, al termine della legislatura, riguardante i temi del sociale.
Luci ed ombre di un paese che si dice civile, ma che non ha ancora scelto la strada del rispetto e della tutela di tutti.
Tra le luci, certamente la celebre legge sulla "riforma dell'assistenza": dopo un secolo si è messo mano su un complesso mondo, caratterizzato, fino a ieri, da interventi parcellizzati e incompleti, come luci sono state le disposizioni sulle adozioni, sul servizio civile, sull'associazionismo, sull'immigrazione, sull'infanzia, sulla sussidiarietà.
I temi più "duri" sono rimasti nel cassetto: la situazione delle carceri italiane, senza progressi e senza amnistie; la cooperazione internazionale, ancora una volta rimandata, la pedofilia, la tratta degli esseri umani.
Temi delicati e complessi che dicono esplicitamente che la nostra cultura (e il nostro parlamento) non si sono ancora adeguati alla realtà - molto spesso drammatica - che la globalizzazione ha rapidamente attivato.
L'impressione generale è che il livello di coscienza si fermi sulle grandi sfide: è come se l'Italia volesse rimanere quel tranquillo paese di provincia che ha sì qualche problema, ma che non è coinvolto con i processi devianti del mondo (si pensi alle mafie).
Tutto ciò in contraddizione con il passo reale della vita: i nostri piccoli e medi industriali attraversano il mondo, esportano e importano merci e manodopera, senza paura di lingue e frontiere. Di fronte agli effetti perversi dell'apertura delle frontiere, tutti ritornano abitanti del villaggio.
All'orizzonte si delinea così una specie di immaturità collettiva che impedisce di affrontare i "limiti" del mondo, accontentandosi della positività dell'azione dei pionieri del commercio e della produzione. Alla lunga il ritardo si pagherà: ci auguriamo senza gli appelli drammatici, quanto inefficaci, alla sicurezza o all'identità.
Credere che ogni azione tesa all'espansione dell'economia possa o debba produrre solo ritorni di benessere, più che ingenuità dimostra una grossa dose di stupidità: civile e anche morale.

01/03/01

Militari, zona franca

[v. lancio 1 marzo 2001, ore 14.21 - “Morti militari in tempo di pace…”]
Come spesso accade, un lungo impegno, accompagnato dall'isolamento, fa emergere "verità scomode": l'ultima è l'inchiesta di due associazioni di parenti militari morti in servizio che fanno luce nel periodo 1976-1999.
Oltre diecimila morti, trecento ogni anno, pur essendo in tempo di pace.
Non è difficile immaginare la ritrosia dei comandi nello spiegare i 27 suicidi di ragazzi nel 1999. Le parate e i linguaggi mal si adeguano a "sconfitte", quali le morti. Il tutto coperto da un silenzio tombale, in onore della "patria". Quando è l'autorità a mimetizzare la verità, difficile scoprire come effettivamente si sono svolti i fatti. Non dimentichiamo le azioni non sempre limpide dei nostri comandi in situazioni delicate della storia recente del nostro paese.
Eppure quelle morti non trovano nemmeno il rimpianto e il ricordo. Il tutto liquidato con una cinquantina di milioni a titolo di risarcimento per ogni morte. Le forze armate applicano "il conteggio" delle assicurazioni sugli incidenti della strada. Se non dimostri il tuo reddito al momento della morte, non è possibile moltiplicarlo per tutti gli anni della vita media degli uomini in Italia.
Molti di quei ragazzi morti, probabilmente, erano alla loro "prima occupazione"; per questo la loro vita vale poco.
Probabilmente il tam tam della situazione è molto più esplicito di quanto si immagini, se occorrono spot pubblicitari per far arruolare gente volontaria nelle forze armate.
Quando verrà il momento di una "normalità" del mondo militare, che faccia applicare le stesse leggi vigenti nella vita civile?
Quando resisterà questa specie di "zona franca" in cui tutto si aggiusta e si sistema?
Ma non è colpa solo degli addetti al lavoro: la coscienza civile sembra aver abdicato ad ogni controllo a vantaggio degli specializzati, compresa la tolleranza. Importante è la propria tutela. Se qualche incidente avviene, pazienza. Pazienza non può avere chi ha avuto una persona giovane scomparsa. E giustamente.

21/02/01

Nasce l'Agenzia

Con la presentazione oggi a Roma, nasce l'Agenzia "Redattore Sociale", una vera agenzia giornalistica quotidiana sul "sociale": qualcuno ne è entusiasta; qualcun altro esprime perplessità.
Eppure un'agenzia era necessaria: per chi vive il disagio e per chi fa comunicazione.
L'idea viene da lontano. Nel 1990 la Comunità di Capodarco fa un primo timido tentativo di "convegno" sui rapporti tra il mondo della marginalità e il mondo della comunicazione. Anni nei quali si rimproverava ai giornalisti di ridurre i problemi sociali a "cronaca nera", per sentirsi rispondere che il mondo del volontariato non aveva "notizie", o se ne aveva, non sapeva comunicarle.
Per rompere questo cerchio, dal 1994 si tiene a Capodarco di Fermo, ogni anno, una tre giorni chiamata "Redattore Sociale". In sei edizioni vi hanno transitato 1.270 presenze di giornalisti e aspiranti giornalisti, con 100 relatori.
Dopo questa lunga incubazione, la nascita finalmente dell'Agenzia.
L'oggetto delle notizie è il mondo del disagio: l'abbiamo sintetizzato in 73 "sottotitoli": dai minori, ai tossicodipendenti, dai disabili ai senza fissa dimora. Ma i redattori dell'Agenzia non vanno alla ricerca di "cronaca": offrono strumenti (dati e notizie), per esplorare questi mondi. Mondi a volte violenti, a volte tristi, quasi sempre "in ombra". Addentrandosi in questi mondi, si comprendono meglio le cose, se ne scoprono di nuove, si esce da quel facile "moralismo-senso comune" caratteristico di chi non ha saperi.
L'approccio è quello di tutte le agenzie: raccontare fatti, offrire approfondimenti, creare relazioni e connessioni. Non diversamente dai mondi "particolari" quali quelli dell'economia, della salute, dell'ambiente. Nessuna pretesa e nessuna crociata: la voglia invece di contribuire alla conoscenza del mondo "reale", oltre la frettolosità della "cronaca", con stile e mezzi appropriati.
Un'arte difficile, ma non impossibile, resa anche necessaria dall'esigenza di maggiori dettagli e approfondimenti, unita, perché no, alla curiosità di mondi lontani e oscuri.
Nella scommessa sono condensate tutte le caratteristiche di un'impresa di periferia: scarsi mezzi economici, redattori giovani, nessuno sponsor, precarietà di inizio. Con una variante: l'incoraggiamento di professionisti seri e affermati che hanno confermato l'esigenza di "sociale".
Il desiderio di comunicare e la stima accordata, sono il capitale sociale dell'Agenzia. La comunità di Capodarco ha creduto nell'ipotesi ed ha messo a disposizione quanto poteva, convinta che per comunicare bene, oltre che conoscere, è necessario farsi carico: in altre parole, leggere la sofferenza, perché scompaia.
Che il tutto avvenga nel giorno del concistoro a me, prete, non dispiace: i modi di seguire la causa evangelica sono sempre molti; giudicarli spetta a Dio.

Cerca nel blog