23/12/03

Natale Precario

E’ molto difficile mettere insieme i momenti di precarietà che attraversano la vita delle persone in questi ultimi tempi, con la gioia del messaggio di Natale che viene.
Abbiamo da sempre predicato la povertà, l'umiltà e la pochezza della vicenda di Betlemme: è come se d'improvviso fossimo oggi chiamati a vivere quella pochezza di mezzi in prima persona e non da spettatori, come in altri anni. Essere lieti non è facile. Il lavoro che non c'è; la paura dei terrorismi vicini e lontani; la rabbia di lavoratori che non si sentono sufficientemente tutelati; il male che incombe nell'universo, nella nostra Italia, nelle famiglie, la solitudine triste e pericolosa. Una serie di circostanze che fa stare desti, in una gioia contenuta e non rilassata, perché forte è l'incertezza del futuro. Un momento di prova potremmo dire. Eppure è il clima che hanno vissuto Maria e Giuseppe: l'invasore straniero, il viaggio precario, l'arrangiarsi per la nascita, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti. Un po’ come viviamo oggi: nella precarietà del presente e del futuro, anche tra tragedie di morte e di guerre.
Quella nascita storica che ha dato i contenuti della nostra fede è partita dal gradino più basso della condizione umana, perché da quel gradino ripartisse la speranza. Non è difficile trarre insegnamenti, celebrando il Natale del Signore.
L'apprezzamento e il ringraziamento prima di tutto di quanto abbiamo: è molto, se paragonato alle condizioni di fame e di violenza sparse nel mondo. Il benessere che sembra svanire è ancora alto e diffuso, anche se non mancano zone d'ombra e di pericolo.
Ma forse l'insegnamento più bello viene dalle parole dell'evangelista Luca: "E all'improvviso ci fu con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: "Gloria a Dio nelle altezze e sulla terra pace agli uomini della sua benevolenza" (Lc 2,14).
E' l'auspicio della ricostruzione del giardino dissestato dal male, perché rifiorisca nella natura e nei suoi abitanti.
L'universo affidato alle creature deve poter risorgere, nel rispetto di ogni creatura animata e inanimata, nell'offrire occasioni perché ogni abitante della terra sia felice della vita da Dio concessa.
Non può esistere Natale per chi è ripiegato su se stesso, pur preoccupato di sé e dei suoi. Non possono star bene solo coloro che hanno pelle bianca, sono cittadini riconosciuti, hanno lavoro, sono integrati, non sono vecchi, non sono malati.
E' l'illusione di chi conta, salvo scoprire che i propri risparmi vanno in fumo, che i figli sono costretti ad emigrare, che le pensioni di vecchiaia sono insufficienti, che nessuno garantisce la tarda età. Ogni qual volta si abbandona la giustizia e ritorna l'ombra dell'elemosina è come un'ombra di morte che copre la terra, non soltanto per coloro che sono costretti a chiederla, ma anche per coloro che si dichiarano disposti a concederla.
Il disegno di Dio è solare: figli e figlie destinati tutti a "godere" della vita, nell'equilibrio del rispetto, così che a ciascuno sia garantita la speranza di vita.
Il Natale ritorna non per rimproverare, ma per illuminare le menti e riscaldare i cuori, perché tutte le creature comprendano e capiscano qual è il disegno di Dio su ciascuno.
I momenti di difficoltà come questi servano dunque a "ripartire" negli slanci di idealità della vita. Il sole tornerà a splendere sulla terra, se i suoi abitanti sapranno rivedere in positivo le proprie intenzioni e azioni. Se riusciranno a superare paure, pregiudizi, inganni e ingiustizie. Il segno del bambino è il segno della vita dignitosa che deve poter esplodere nella crescita e nella vita piena.
Dio fattosi uomo è la garanzia della sacralità del creato, nel rispetto della natura e delle creature: a ciascuno la risposta.
Pubblicato sul quotidiano Europa

25/11/03

Al Senatore Emilio Colombo

Gentile Presidente, la chiamo anch’io così: le sue dichiarazioni sull’uso personale di cocaina ci hanno lasciati tutti di stucco. Saranno rimasti male sia il Presidente del Senato che quello della Camera che si erano preoccupati dei privilegi dei Senatori e dei Deputati. Per la verità anche noi che ci occupiamo di tossicodipendenti, siamo rimasti interdetti. Alla sua età, nella sua posizione, come si fa?
Sarà stata depressione, noia, lei parla di “uso terapeutico”, o che cos’altro?
In realtà l’hanno trattata bene: la procura, i giornali, l’establishment. È vero che hanno divulgato la notizia della sua deposizione, ma non hanno infierito su di lei. Un redattore di telegiornale delle 20.00 ieri ha detto che ha “il vizietto” con la parolina allusiva e comprensiva, come si conviene a persone di rango. Per i normali assuntori di droghe non è che siano poi così educati, una strapazzata, qualche giorno di galera, un po’ di sana (dicono) paura non guasta, come si arrabbierebbe un padre di famiglia.
Non sappiamo che cosa ora le succederà: probabilmente nulla. Fa uso personale di droga, è incensurato, ha un’età veneranda, nessun giudice l’obbligherà a nulla. Potrà patteggiare la pena, sempre che il Senato permetta il processo. Nessuno le toccherà il titolo di Senatore a vita con relativa prebenda. Eppure, presidente, quella cocaina che dice di assumere da poco più di un anno (dice la verità? perché i tossici sono bugiardi), è la stessa che rovina ragazzi e famiglie, facendoli precipitare nella non vita. Non c’è droga di ricchi e di poveri. Ma droga coltivata da contadini, contrabbandata da delinquenti criminali, spacciata in ambienti squallidi per denaro e per uso personale.
E le è andata bene. Se l’avessero scoperta dopo l’introduzione della nuova legge, le avrebbero tolto la patente (non so se anche l’autista), il passaporto (che vergogna) e l’avrebbero spedita ai servizi sociali. A meno che la quantità sequestrata non avesse superato i 500 mg perché allora sarebbero stati guai: l’avrebbero considerata spacciatore. Se potessi suggerire qualcosa al giudice, consiglierei di farle fondare una comunità di recupero, una volta disintossicato, per vip, politici e industriali, imprenditori e ricchi nullafacenti. Il tutto per il dono della vita che è un bene prezioso per ognuno.
Con affetto
don Vinicio
P.S. Sempre disponibile per eventuali consigli.

13/11/03

Morti inutili

E' sempre terribile la notizia della morte in guerra di un padre, di un figlio, un fratello, un fidanzato, un marito, un amico. Lo proveranno tutto, senza sconti, le famiglie dei nostri carabinieri e militari, morti in Iraq.
Gli uomini delle istituzioni faranno di tutto per dare solennità a quelle morti: funerali di stato, con bandiere, fanfare e medaglie. Alle famiglie resteranno foto, lettere, telefonate. Presto ingialliranno, per lasciare il posto al silenzio duraturo della scomparsa del loro caro. Hanno chiesto di non fare polemiche: tutti silenziosi di fronte alla morte. Ma nonostante il silenzio imposto, rimane la domanda se il sacrificio di quelle vite era necessario. Noi rispondiamo di no: come non era necessaria la guerra.
Hanno manomesso rapporti di intelligence dei loro paesi pur di convincere l'opinione pubblica che era necessaria; si sono autoproclamati angeli giustizieri prima contro la armi di distruzione di massa, poi contro il dittatore Saddam, ora contro il terrorismo. Giustificazioni postume per dire a tutti che la guerra era doverosa. L'Italia ha spedito contingenti di uomini, soprattutto del sud che, con l'essere militari, si riscattano dalla disoccupazione e dalla vita precaria; hanno dato giustificazioni altruiste e nobili a una guerra che non era né nobile, né gratuita. Qualcuno aveva scongiurato di ricorrere a tutti i mezzi, ma non alla guerra, per fermare Saddam: ricordiamo tra questi il Papa. Ha invocato, pregato, attivato messaggeri e diplomazia. Inascoltato, perché occorreva liberare l'umanità dalle forze del male, rimproverandolo, nemmeno troppo discretamente, di favorire la feroce dittatura di Saddam.
In queste ore, nella nostra Italia, la giustificazione della presenza italiana in Iraq ondeggia tra l'immagine di soldati forti che combattono il terrorismo e quella di portatori di umanità che fraternizzano con le popolazioni locali. In Iraq incombe una guerra, dichiarata vinta, ma che si dimostra non vinta. E tra le tante vittime risultano nostri concittadini perché sono stati identificati con il nemico. I nostri soldati sono morti per una guerra di governi; nemmeno di popoli. L'affetto va alle famiglie dei nostri soldati e non colmerà l'inutilità di vite perdute. Ritornino a casa tutti i nostri uomini: potranno partecipare alle missioni umanitarie solo ed esclusivamente quando saranno effettivamente garanti di pace e di fraternità: non certamente in Iraq.

17/10/03

Finanziaria, senza speranze

In questi ultimi giorni, prima dell’approvazione della Finanziaria, si sono mobilitate tutte le lobby per salvare il salvabile dai tagli negati pubblicamente, ma scritti nei documenti. Ma le lobby non sono tutte uguali e otterranno risultati differenti.
Per il mondo dei deboli alzare la voce non serve: il governo fin dal suo nascere ha fatto le sue scelte: tutelare le fasce privilegiate e comunque potenti, disinteressandosi di quelle marginali. Con i tagli proporzionali, apparentemente ugualitari, chi era avvantaggiato rimarrà privilegiato, chi era indietro sarà ancor più in affanno.
Da un punto di vista metodologico, nel perseguire questa politica sciagurata ha usato tre strumenti: negare in continuità la precarietà delle risorse del paese, pubblicizzare dettagli di intervento sociale (un milione a tutti i pensionati, 700 mila dentiere per i vecchi, 1.000 euro dal secondo figlio, la tassazione delle pensioni d’oro, gli asili aziendali) per ottenere comunque consenso e delegare agli enti locali tutti gli interventi concreti di risposta alla popolazione bisognosa, con minore risorse. Non a caso tutte le Regioni, Province, Comuni si sono dichiarati insoddisfatti della proposta della Finanziaria.
E’ una politica perversa – di pubblicità ingannevole – perché non dice la verità, nasconde chi e cosa privilegia e perché non proporziona, inversamente ai bisogni, le risorse.
L’elenco dei tagli, a questo punto, può essere immaginato, sicuri di non sbagliare: i fondi per la non autosufficienza, per la cooperazione, l’associazionismo, l’handicap, gli immigrati, le carceri, per l’infanzia e l’adolescenza, contro l’esclusione sociale, la tossicodipendenza sono stati inesorabilmente tagliati.
Non solo le categorie a rischio sono ridotte all’elemosina – tema caro ai moderni liberal, lumbard e no, della politica – ma settori, ben più pesanti di politica sociale scricchiolano: la scuola pubblica e le università, l’ambiente, la sanità pubblica, la cooperazione internazionale.
Dicevamo che non serve alzare la voce: prima di tutto perché le aggregazioni della cosiddetta società civile contano meno di nulla nella politica reale del paese. Se sono silenziose e obbedienti possono al massimo essere utilizzate per le opere “di misericordia”. In secondo luogo il sociale in sé, nella concezione mercantilistica, è un peso e come tutti hanno sperimentato ogni peso è da scaricare.
In questa stessa rubrica, il 21 Maggio del 2001, abbiamo intitolato il commento alla vittoria del centro destra: “senza illusioni”. Confermiamo oggi purtroppo quel giudizio, con la triste constatazione che non avevamo sbagliato.
Speriamo solo che chi allora, nel mondo del sociale e del sindacato, teorizzò la via del dialogo, si sia oggi ricreduto.

23/09/03

Severi, ma senza prendersi cura

Droga, lettera aperta al vicepresidente del ConsiglioOnorevole Fini,
in occasione di una “Conferenza mondiale sulle tossicodipendenze”, organizzata dalla Comunità siciliana “Casa Rosetta”, a due anni dal primo annuncio, ha anticipato i contenuti del ddl che il governo si appresta a presentare entro l’anno e che dovrebbe costituire la svolta delle politiche sociali contro le tossicodipendenze.
Pur dovendo aspettare di conoscere i contenuti precisi del ddl, si possono fare alcune considerazioni. Il messaggio dato è un messaggio di rassicurazione alle famiglie: state tranquilli, sembra dire, combatteremo e vinceremo la sfida contro la droga. L’approccio infatti è quello di chi, cambiando le regole del gioco, riesce finalmente a offrire la carta vincente. Questo messaggio presuppone due convinzioni non vere: chi ci ha preceduto non solo ha sbagliato, ma, in qualche modo è stato compiacente con il consumo di droghe; la seconda afferma la sicurezza di aver trovato finalmente il meccanismo che si opporrà, con successo, alle dipendenze: tale meccanismo – al di là delle sfumature – è la repressione. Basta con la distinzione tra droghe leggere e pesanti; basta con l’indulgenza, basta con i tentennamenti; da qui la durezza delle sanzioni, senza guardare in faccia a nessuno.
Lei si è fatto portavoce di quanti in Italia - e sono molti – vorrebbero una soluzione rapida e definitiva al problema delle droghe.
Così non sarà: per molteplici motivi. Le droghe non sono più distinte in leggere e pesanti, ma hanno un crescendo pauroso che inizia con l’alcol (ben pubblicizzato, che annovera tra i suoi iscritti 1 milione e mezzo di persone, di cui 30 mila muoiono ogni anno) e transita per le droghe sintetiche, gli psicofarmaci, l’hascisc, l’eroina, la cocaina. Quando qualcuno si presenta in comunità oramai ha provato di tutto e di più. La varietà e la quantità delle sostanze, i modi e i tempi di assunzione fanno avere l’illusione di non essere drogati. Solo lo sfinimento fisico e psicologico convincono, quando convincono, che si è sull’orlo del baratro: per questo motivo le comunità sono piene di persone oramai 30/50enni, con 15-20 anni di “carriera”.
La repressione è già sperimentata oggi abbondantemente da tutti i tossicodipendenti: ritiro della patente, metadone, comunità, carceri e ospedali sono il bagaglio che ciascun tossicodipendente ha nella sua valigia.
Ci saremmo aspettati una ripresa dell’attenzione al problema della droga a partire dall’educazione e quindi del disagio delle giovani generazioni. I giovanissimi non sanno nemmeno loro perché si drogano; hanno problemi comportamentali, se non psichiatrici; il recupero di un percorso umano è difficile perché spesso si è in presenza di “scatole vuote”. Nessuna comunità e nessun Sert, anche se rinnovato, intercetterà il ragazzo/a che inizia la carriera di dipendente. Perché non esiste sul territorio alcuno che abbia attenzione ai primi fenomeni di sbandamento e di disagio. Le risorse sono scarse, le strutture sono rintanate invece di scendere in campo, gli strumenti si riducono a invocazioni e poco più.
La paura del carcere e delle sanzioni non funzionerà, perché il giorno dopo la promulgazione della nuova legge, avranno trovato il trucco per aggirarla. E anche se non dovessero riuscirci, andranno a ingrassare il numero dei tossicodipendenti in carcere. Il consumo di droga è talmente degenerante da far saltare ogni comportamento socialmente adeguato, compresa la vergogna del carcere.
Una efficace politica di contrasto inizia dall’attenzione alle giovani generazioni che non c’è: le famiglie sono sole, le scuole rattrappite, gli oratori e le associazioni scarseggiano e le poche esistenti sopravvivono. Il messaggio non può essere “tolleranza zero”, ma caso mai “consumo zero”, perché vogliamo bene ai nostri figli e non vogliamo essere correi della loro distruzione. Per questo siamo disposti ad ascoltarli, ad essere pazienti, a diventare se ...

04/07/03

Droghe: polemiche fuori bersaglio

Una serie di dati sulle tossicodipendenze di questi giorni, fa riflettere sul fenomeno del consumo di droga in Italia e in Europa.
Uno dei dati significativi della “Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze” dice che le morti per overdose da cocaina sono aumentate a un ritmo impressionante: erano il 2,8% nel ’96; sono diventate il 7,9% nel ’99; per arrivare al 13,8% nel 2002, nonostante il calo, in termini assoluti (tra il 2001 e 2002) di morte per overdose.
La cocaina sta diventando la prima droga pesante in assoluto. Nel 2000 lanciammo l’allarme sull’omertà dell’uso di cocaina (Corriere della sera 26.11.2000). Oggi confermiamo tale omertà: mai nessuna notizia che allerti l’opinione pubblica sul rischio di tale droga. E il motivo c’è: è una sostanza più “in”, alla portata non solo dei tossicodipendenti da strada, ma anche di persone in carriera. Non prevede il rito del “buco”, non crea allarme sociale, amplifica il senso di onnipotenza, di prestanza fisica, di comunicazione. E’ la droga dei ricchi: l’han capito bene i trafficanti che, in questi ultimi anni, hanno abbassato i prezzi al consumo, con il beneficio del silenzio stampa di cui impunemente gode quest’uso di droga.
Il secondo dato è fornito della ricerca “Espad” (Inchiesta europea nelle scuole):un ragazzo italiano su 3 (33,5%) tra i 15 e i 19 anni ha fumato spinelli; le intossicazioni alcoliche (ubriacature) ha riguardato il 53% degli intervistati nel 1999, per salire al 55% nel 2002.
Infine l’Istituto superiore di sanità dichiara che si è bloccato il trend di diminuzione dei nuovi contagi da Hiv, mentre sono aumentati del 38% in un anno i casi di infezione attribuiti a trasmissione eterosessuale.
Di fronte a queste novità, le polemiche degli ultimi mesi appaiono vecchie, scontate, fuori bersaglio.
Siamo curiosi di conoscere il ddl dell’on. Fini, prima annunciato e poi rimandato, sulla “tolleranza zero”.
Siamo curiosi di sapere se i nomi di un terzo dei nostri ragazzi saranno fatti conoscere alle prefetture perché consumatori, anche se occasionali, di droghe leggere, se sarà proibito l’alcool, considerato l’abuso oramai massiccio da parte delle giovani generazioni, se saranno chiamati tossicomani personaggi noti e meno noti che fanno uso di cocaina.
La ragionevolezza dice che il fenomeno del consumo di droghe è diventato veramente critico, in quanto anonimo, diffuso, pericolosissimo.
Ci aspetteremmo una politica piena di riflessione, di interventi preventivi seri, di nuovi interventi riabilitativi.
Per il bene dei nostri figli, continuiamo a sperare.

14/04/03

Il linguaggio dei vincitori

A chi, come noi, ha creduto fermamente che la guerra in Iraq dovesse essere evitata, dopo la vittoria anglo-americana, i vincitori suggeriscono sensi di colpa. Il loro linguaggio ondeggia tra il cinico e il baro.
- "Non sono state trovate armi di distruzioni di massa, ma le troveremo; abbiamo "liberato" l'Iraq da un dittatore; le morti innocenti e le distruzioni sono ineludibili effetti collaterali della guerra; il caos e i saccheggi sono fenomeni naturali in un conflitto; la ricostruzione spetta ai vincitori: chi vuole parteciparvi intanto paghi pegno, condonando i debiti esteri dell'Iraq", sono alcuni dei messaggi dei vincitori.
E, da vincitori, non sono ammessi dubbi ed errori; sarà la storia - che come è noto interviene dopo decine di anni - a dare giudizi; nel frattempo i vincitori hanno diritto di parola e gli sconfitti (i pacifisti) si vergognino delle loro idee.
Le lezioni da trarre, con molta serietà, per chi crede all'esclusione della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, sono molte e serie.
La prima riguarda le cosiddette nostre "democrazie": esse sono fragili e imperfette. Non sono esenti da poteri forti e da interessi nazionali e personali, che nulla hanno a che fare con il mandato popolare di rappresentanza. Perfezionarle, rendendole trasparenti, è un dovere che riguarda tutto l'occidente.
La seconda lezione riguarda la "logica" della pratica di pace: occorrono approcci lontani dagli schemi prevalenti della forza. Se tali schemi prevalgono è evidente che chi vince ha ragione, nonostante tutto.
La terza riflessione riguarda gli organi nazionali e internazionali garanti della pace: le Nazioni Unite, la cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari non possono essere presi o lasciati a piacere da chi ha la forza. Ogni prassi per essere efficace deve poter disporre di regole e strumenti adeguati.
La quarta riflessione riguarda la comunicazione: mai ascoltati argomenti e viste scene così "di parte". La dignità dei prigionieri o il bene della vita sono stati misurati a seconda dell'appartenenza ai vinti o ai vincitori. Gli stessi motivi della guerra sono stati diversamente attribuiti a fatti e circostanze affermate e negate.
La conclusione da trarre non è difficile: il desiderio di pace è la base di una filosofia delle relazioni interpersonali e internazionali. Necessita di strumenti, di risorse, di controlli per interferire sull'economia, sulla politica, sulla cultura. Senza il passaggio alla concretezza, il desiderio di pace continuerà ad essere solo desiderio e, per questo, sconfitto e deriso.

11/03/03

Le ragioni della sconfitta del pacifismo

Le notizie di queste ultime ore danno oramai per scontato l'inizio della guerra in Irak. Al di là della mancata seconda risoluzione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, le notizie dai fronti caldi dicono che di fatto la guerra è già iniziata. Ne esce sconfitta tutta quella parte di prese di posizioni, governative e della società civile, che continuano a dire no alla guerra.
La domanda spontanea è il perché della sconfitta del "pacifismo".
Le ragioni sono almeno tre. La prima ragione è politica: chi dice no alla guerra appartiene a quegli stessi popoli, che continuano a dettare legge nel mondo. Possessori delle risorse economiche, finanziarie e commerciali, della tecnologia, della ricerca scientifica, di ogni strumento capace di "comandare" nel mondo, costoro non hanno rinunciato al loro potere, riducendo così la differenza tra il sì e il no a prese di posizioni "emozionali" o al massimo "razionali". Tra gli Stati Uniti, l'Inghilterra, l'Australia e la Spagna da una parte e il resto del mondo, la differenza è solo quantitativa, ma non qualitativa. Fare la guerra o no diventa un'opportunità o un errore, a seconda dei punti di vista, ma gli equilibri, con o senza la guerra nell'Irak, non cambiano tra le nazioni potenti del mondo.
Il secondo motivo, etico, è più profondo: poiché ciascuna nazione si è arrogato il diritto di definire che cosa è bene o male, ognuno in base alla propria potenza, può imporre il "suo" bene o il "suo" male. Nessun riferimento oggettivo (nemmeno quello dell'ONU) è riconosciuto. Da qui la "trattativa", per conquistare adesioni alla propria politica internazionale interventista o l'abbandono di altre guerre alla loro deriva, senza interventi e senza preoccupazioni.
Il terzo motivo è di ordine esistenziale. Molto poco numerosi sono coloro che, nel primo mondo, sono disposti a una vera politica di pace. Tale politica presuppone la rinuncia ai propri privilegi, il rispetto delle nazioni povere, il ripristino degli ecosistemi, anche a costo di gravi sacrifici, compresa una recessione economico-produttiva dei propri paesi: sacrificio che quasi nessuno è disposto a fare.
Innalzare bandiere, fare manifestazioni e sit-in, attivare consensi rischia di diventare evento folkloristico, riservato a menti intelligenti, ma a cuori ancora troppo duri e per questo senza effetti pratici.
Una vera politica di pace è severa: presuppone, oltre le prese di posizione, comportamenti pacifisti. Merce veramente rara oggi nell'occidente: la sconfitta del "pacifismo", ne è riprova.

21/02/03

Con soddisfazione

I due anni dellAgenzia Redattore Sociale
Con soddisfazione, anche se nello stile contenuto a noi caratteristico, ricordiamo i due anni dell'inizio dell'Agenzia redattore sociale.
Nata dopo sette edizioni del Seminario di formazione per giornalisti, che si svolge ogni anno a novembre a Capodarco, è stata voluta dalla Comunità di Capodarco per dare pensiero all'azione pratica nel sociale che da oltre trent'anni la comunità svolge.
Un'avventura bella, perché, giorno dopo giorno, far emergere che cosa avviene nel sociale italiano significa rendersi conto delle situazioni, delle politiche, degli orientamenti che lentamente in Italia stanno evolvendo, anche con significativi cambiamenti.
Se ne sono resi conto i nostri interlocutori, un gruppo significativo di testate giornalistiche e televisive, di associazioni e di enti pubblici e privati, che ci seguono con attenzione e competenza.
Un'avventura anche faticosa, non solo per i costi, ma per dare un panorama che sembra all'apparenza omogeneo, ma che, invece è pieno di dettagli, novità e mondi sconosciuti.
Un impegno da continuare, soprattutto ora che il sociale, molto celebrato e benedetto da ogni parte, in realtà si ritrova a dover gestire situazioni sempre più complesse e difficili, con minori risorse.
L'Agenzia, nello stile proprio di dare notizie originali, continuerà nella sua funzione di informazione, di collettore, con due caratteristiche che la fanno unica in Italia.
La prima consiste nell'habitat nel quale è nata e continua a vivere: una comunità impegnata concretamente nei contenuti sociali. La seconda caratteristica consiste nella "benevolenza" nei confronti del sociale, anch'essa patrimonio dello stile della comunità.
Gli ingredienti della competenza, della passione e della correttezza costituiscono le migliori condizioni per fare dell'Agenzia un "luogo" dove far convergere letture della realtà, proposte di risposte e attenzioni alle politiche pubbliche.
L'archivio dei link sociali che, in occasione dei due anni della nascita, offriamo con 1.980 indirizzi, è il simbolo di quell'unità di buone volontà che in Italia, fortunatamente, sono attive e creative.
Accettiamo di cuore gli auguri da chi ci legge e apprezza, con l'aggiunta di ogni suggerimento che aiuti non soltanto noi, ma soprattutto le situazioni di marginalità purtroppo ancora presenti nel nostro paese.

24/01/03

Full welfare *

Da diverso tempo rifletto sul fenomeno dell'abbandono della coscienza della solidarietà che la nostra gente sta vivendo.
I gruppi e le comunità vivono direttamente e abbastanza drammaticamente il senso della solitudine. Sempre più la nostra funzione è quella di "operatori ecologici": gli addetti alla pulizia della città, perché i quartieri siano abitabili da gente tranquilla e serena. Noi viviamo e siamo stimati in funzione del lavoro a noi affidato. Altri pensano e decidono: a noi il mestiere di nascondere e custodire chiunque disturba la quiete dei cittadini per bene.
Ad una prima reazione di rabbia e di tristezza è subentrata una riflessione profonda del perché i cittadini e le cittadine abbiano abbandonato il senso del legame civile che solo permette una politica sociale degna di un paese a civiltà avanzata.
Osservando attentamente il quadro di riferimento economico, sociale e culturale sono giunto alle seguenti conclusioni.
1. Il "sistema" generale di agiatezza che viviamo costringe ogni individuo adulto e ogni famiglia ad una "corsa" quotidiana e costante non già per arricchire (privilegio di pochi), ma semplicemente per mantenere uno standard di vita accettabile. Ciò significa che non c'è spazio per attenzioni terze. La propria sopravvivenza agli standard è preoccupazione costante. Le persone non si fermano; hanno da fare; debbono pensare a se stesse e ai propri figli.
2. Tutto è monetizzato: è la seconda osservazione. Anche le relazioni più intime (con i bambini, con la persona anziana, con il malato) sono sottoposte al ritmo che il tempo esige. Non c'è spazio per il dono, non c'è spazio per il gratuito.
3. Tutto è estraneo: la cerchia di chi ci si può fidare si restringe sempre di più. Pochi amici, non tutti i familiari. Ciascuno deve tener conto delle proprie forze: non ci si aspetti nulla di importante di fronte a una seria difficoltà della vita.
4. Questi tre elementi producono il senso della precarietà e quello della solitudine. Precarietà per il luogo dove viviamo, per il lavoro, addirittura per gli affetti.
La solitudine crea ansia e tristezza: amici, conoscenze, relazioni sono sottoposte a verifica di potere. Se sei a posto, se conti, se sei qualcuno, tutto funziona. Se stai in difficoltà (per condizione culturale, economica, sociale) il cerchio si fa sempre più stretto fino alla solitudine estrema.
5. Il quadro descritto non è riferibile a gruppi di persone "speciali". Poveri, vecchi, vulnerabili, ma è una condizione di normalità che coinvolge tutti, anche quelle fasce di popolazione che ieri erano (o si ritenevano) sicure.
6. Il welfare pensato fino ad oggi non funziona più: la povertà, la precarietà, la solitudine cambia di quantità, non di qualità. Anche ceti di persone relativamente "sicure" oggi non lo sono più: un qualsiasi meccanismo negativo riduce a "povertà", ampiamente intesa, chiunque.
Sono terminati i tempi nei quali categorie di persone, sufficientemente ampie, cercavano il riscatto o il miglioramento della vita. Tutti sono sottoposti alla legge di mercato: ogni pezzo prodotto (salute, mestiere, ceto, funzione) è sottoposto alla legge della domanda e dell'offerta, nessuno esente.
7. Il welfare odierno, per riprendere significato, può essere solo "full", totale, nel senso che garantisce tutti: il povero, il pensionato, il quartiere degradato, ma anche il commerciante, l'artigiano, l'impiegato, il figlio, il nonno.
La "presenza" sociale (dello stato e del privato sociale) va estesa dunque a chiunque, se chiunque può essere soggetto a degrado.
8. Il welfare è totale non solo se guarda la condizione della persona, ma se si allarga all'ambiente (pulizia, viabilità, rumorosità, sanità, scuola) nel senso più ampio del termine, coinvolgendo - non è eresia - elementi ritenuti fino a ieri marginali della vita privata e collettiva (la vacanza, il tempo libero, il commercio).
Un welfare insomma che tuteli "tout ...

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