12/04/07

Il volontariato torni alla bontà esigente

Occorre fare molti auguri ai rappresentanti del volontariato che si raduneranno a Napoli il 13 Aprile prossimo, chiamati alla quinta conferenza nazionale. Come sempre, saranno esaltati i numeri di quanti dedicano tempo e risorse per un qualche peso gratuito. L'ultima stima in Italia indicava in 3 milioni e trecentomila (Studio Ipsos 2006) coloro che abitualmente fanno volontariato.  21mila le associazioni (con 100 mila religiosi) che si impegnano in 292 mila piccole sezioni, triplicate rispetto al 1991.
Gli auguri sono necessari perché questo grande mondo di donne e uomini che offrono gratuità deve affrontare seri nodi del proprio futuro. Il primo, tutto esterno, dice che spesso il volontariato svolge funzioni di supplenza ai problemi ai quali il mondo istituzionale (governo, regioni, province, comuni) non risponde e non da oggi. Gli aiuti e i servizi per chi ha bisogno, nel nostro paese, sono scarsi e instabili. Il problema - si risponde - è quello delle risorse insufficienti. Sarebbe più corretto domandarsi per quali obiettivi le risorse sono impiegate; esse infatti non sono mai infinite. Si noti la discussione odierna a chi deve andare il gettito delle maggiori entrate: i forti stanno facendo la voce grossa. Da qui l"impegno affidato al volontariato a gestire iniziative, se non addirittura emergenze. Alcuni esempi sono sotto gli occhi di tutti: i servizi all’infanzia, agli stranieri, ai carcerati, agli anziani, ai malati, ai poveri sono affidati volentieri al mondo del volontariato, per non parlare di iniziative destinate ai ragazzi, al tempo libero, alla cultura. E’ forse una quindicina d’anni che tra istituzioni e volontariato si è instaurato un abbraccio perverso: l’ente pubblico si appella al volontariato; quest’ultimo si impegna nella gestione delle risposte in convenzione. Due sono i risultati negativi: l’ente pubblico si interessa sempre meno dei diritti delle persone deboli e bisognose; il volontariato diventa semplice esecutore (a basso costo) delle indicazioni dell’amministratore di turno. E’ uno dei motivi del ritardo con il quale alcune necessità nella nostra Italia non solo non sono state mai affrontate, ma nemmeno programmate. Le famiglie sono costrette ad arrangiarsi (due milioni le colf nelle famiglie) e se non possono, vivono nel degrado (i poveri sono una diecina di milioni).
Il mondo del volontariato deve liberarsi da queste impegni impropri per tornare ad essere quello per cui è nato.
Volontario è chi incontra i problemi: li percepisce prima di ogni altro perché, vivendoli sul proprio territorio, intuisce il nocciolo delle questioni. Agendo gratuitamente si fa portavoce della necessità di risposte adeguate a chi di dovere. Non chiede per sé, ma per chi ha bisogno. Può, per necessità, inventare risposte nuove, ma è consapevole di non dover fare all’infinito questo mestiere.
Le notizie che dicono che il mondo del volontariato è anche, in qualche modo, profit, essendo stimato il suo fatturato in 38 miliardi di euro e che nelle imprese sociali, a vario titolo, lavorano oltre 630 mila dipendenti, non sono consolanti.
Il rischio è di essere partecipi di abbandoni e di ingiustizie. Non permettendo ai problemi di esplodere, il volontariato si rende correo di mancanze e di parzialità. Con parole forti può diventare "utile idiota” di un sistema che fa dei deboli una parte marginale della vita collettiva, salvo recuperare la buona coscienza attraverso la gratuità e la generosità. C’è chi ritiene sia ingenerosa questa interpretazione della buona volontà di chi comunque dona tempo ed energie per gli altri. Non è in discussione evidentemente la generosità: occorre non dimenticare mai a che cosa serve e a chi giova, alla fine dei giochi, la bontà. Un eccessivo ricorso al volontariato nasconde una cattiva politica.
Auguriamo di nuovo ai partecipanti alla quinta conferenza sul volontariato di non fare le comparse nel teatro delle debolezze: di farsi invece ..

12/02/07

I Dico e la famiglia trascurata

Gentile Presidente, Gentili Ministre e Ministri, seguo a distanza la lunga discussione di questi giorni sui DICO. Credo che quest’ultima sia una iniziativa fuorviante, frutto non so di quali logiche ed esigenze. La famiglia italiana è gravemente malata – non da oggi – per tre grandi motivi che ne minano la base: la diminuzione del numero di famiglie costituite, la infertilità e la stabilità.
Nel mese scorso l’ISTAT ha pubblicato i dati sulle famiglie in Italia con riferimento al 2003. La diminuzione del numero dei matrimoni è costante dal 1999 al 2003: da 280.330 a 264.097. E’ stagnante l’indice di natalità già da vari anni, collocandoci al penultimo posto in Europa. Logica avrebbe voluto che questo “grave problema” fosse stato avvertito dal governo, offrendo un significativo pacchetto di sostegno economico e sociale alle famiglie. Nonostante la finanziaria, l’attenzione alla famiglia è oggi insufficiente a invertire il trend negativo.
Da questo punto di vista hanno ragione i Vescovi italiani a lamentare la scarsa attenzione; cosa che per la verità non hanno fatto con ugual forza con il precedente governo, nonostante avesse sostenuto ancor meno le famiglie.
Solo nel quadro di un fortissimo impegno per le famiglie avrebbe avuto senso “legiferare” anche sulle unioni di fatto, in quanto nuclei comunque significativi e rilevanti.
Che senso ha porre l’attenzione sul 5% dei diritti delle situazioni precarie, dimenticando la sostanza dei problemi? La sensazione esterna è che la lobby potente di pochi - come spesso accade - abbia rivendicato per sé diritti, dimenticando le condizioni reali dei più. Per un governo attento alle uguaglianze sociali si tratta di un errore grave.
Per quanto concerne la stabilità, è fuori bersaglio l’esortazione della gerarchia ecclesiastica a non legiferare su forme diverse di unione, quasi che l’eventuale silenzio statale possa ritardare la crisi delle famiglie regolari. Credo che l’intervento dello Stato possa essere solo marginale e non sostanziale.
La concezione della famiglia in Italia è già in cambiamento da dieci anni: metà delle famiglie italiane, in alcune parti del paese, non è più religiosa. Le separazioni che sono in costante crescita dal 1999 e che rappresentavano il 23,15% nel 1999 per arrivare al 30,95% nel 2003, possono essere solo in parte limitate da una forte politica di sostegno alle famiglie.
I matrimoni civili avevano raggiunto nel 2003 il 29,4% dei

15/12/06

Abbiamo perso il contatto con "sorella morte": lettera a Welby

Caro Piergiorgio, ho pensato molto in questi giorni, leggendo i tuoi appelli a morire, che cosa potesse dirti un credente che comprende che cosa significhi “la prigione infame del corpo”. Abbiamo vissuto in comunità molte storie simili alla tua: morti lente, inutilmente atroci, causate da malattie irreversibili.
Queste storie hanno significato per noi misurarsi con quel tipo di morte particolarmente feroce perché si avvicina senza fretta.
La vita è come il sole: sorge pieno di speranza, va su nel cielo splendente e poi tramonta. Per qualcuno il sole non è mai splendente perché la disabilità, la malattia “importante”, come dicono i medici,  rende triste, molto triste, il cielo.
Alcuni si lasciano andare: a volte imprecano, spesso sono sopraffatti da tristezza infinita. Altri reagiscono, chiedendo giustizia e solidarietà per realizzare i sogni, altri ancora fanno della loro vita un “segno” importante di dignità.
Quando la notte sta avvicinandosi, dopo aver combattuto per una vita, alcuni chiedono di morire: hanno dato già abbastanza. La fatica li ha stremati.
Noi li accompagniamo nella morte, impedendo che la medicina si accanisca per i pochi attimi in più che dice di garantire.
Ma tu hai posto un problema che va al di là della tua storia personale: hai chiesto se e quando è giusto dire basta. L’hai fatto per le tue idee e per la tua militanza.
Hai chiamato in causa la morte, evento che la scienza, la medicina, la cultura moderne ignorano: gli abitanti del primo mondo aspirano all’immortalità. Le discussioni non sortiranno grandi risultati: abbiamo perso la dimensione relativa della vita che il libro della Sapienza ha invano suggerito:
“La nostra vita passerà come le tracce di una nube,
si disperderà come nebbia

01/12/06

Addetti non profit: utili idioti?

Con una certa preoccupazione, ma sicuro di non essere distante dalla verità, constato che il cosiddetto mondo non profit sia oramai marginale rispetto alle politiche sociali.
Grandi e piccole organizzazioni del cosiddetto mondo non profit (associazioni e organizzazioni di volontariato, enti gestori) sono ininfluenti nelle scelte di politica sociale.
Vengono esaltati i numeri della loro crescita. L’ultima stima del volontariato in Italia indicava in 3 milioni e trecentomila (Studio Ipsos 2006) coloro che abitualmente fanno volontariato.  21mila le associazioni con 100 mila religiosi che si impegnano in 292 mila piccole sezioni, triplicate rispetto al 1991. Il mondo del volontariato è anche, in qualche modo, profit, essendo stimato il suo fatturato in 38 miliardi di euro.
Nelle imprese sociali a vario titolo lavorano oltre 630 mila dipendenti, che nel 70% dei casi ha un titolo di scuola media superiore.
La loro distribuzione nel territorio nazionale non è omogenea: il 60% opera al nord, il 19,3% al centro e il 20,7% al sud.
La domanda è che cosa oggi dica, in termini politici, questo mondo. La risposta secca è che contano poco, molto poco. Provo a dimostrare la tesi.

31/10/06

Dopo Verona: la Chiesa senza la dimensione “materiale” della vita?

A pochi giorni dalla chiusura del Convegno di tutta la Chiesa italiana a Verona, l’appuntamento chiamato a tracciare le linee di azione della chiesa cattolica per i prossimi dieci anni, dopo quelli di Roma (1976), di Loreto (1985) e di Palermo (1995) è utile rileggere gli interventi di Benedetto XVI, del card. Tettamanzi, Arcivescovo di Milano (relazione introduttiva) e del card. Ruini, Vicario di Roma (relazione conclusiva) per comprendere i punti forti e quelli fragili di una prospettiva che ha al centro dell’interesse la sfida del cattolicesimo con la modernità. Al di là dei modi di porre la questione, in attesa delle conclusioni “ufficiali” che la Conferenza episcopale italiana si riserva di trarre tra qualche mese, tutte e tre le relazioni hanno riassunto nella questione “antropologica” la sostanza di questa sfida. Per questione antropologica si intende la trasformazione – come ha spiegato il card. Tettamanzi – che la cultura moderna ha sulla visione della vita e sull’esperienza odierna dell’uomo (un tempo cristiana). Trasformazione non solo diretta alla cultura “alta”, ma alla cultura che contagia e modula ogni persona.
Le radici del cambiamento sono da addebitare, secondo Benedetto XVI, a una nuova ondata di “illuminismo e laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre, sul piano della prassi, la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al qual tutti gli altri dovrebbero sottostare”.
A questa sfida le tre relazioni rispondono proponendo il modo di essere cristiani: l’essere testimoni della speranza. Per la fede che vivono “rendano Dio credibile”, per ricordare un’espressione di Benedetto XVI.
Ne consegue che il cristiano non può, né deve nascondersi, ma impegnare il suo pensiero e il suo modo di vivere perché la missione della Chiesa produca un “determinante influsso positivo sulla vita della società” (card. Ruini).
Il cristianesimo dei prossimi anni deve ritrovare, secondo le parole del Papa, nella santità, la forza di risposta alla sfida moderna. Il punto di forza di questa visione è l’appello alle radici più profonde della fede: “ripetere “quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra cultura”, auspicando che l’azione della chiesa non sia mai un adattarsi alle culture, ma “purificazione”, “taglio coraggioso che diviene maturazione e risanamento”.
Le tre relazioni fondano dunque la possibilità della risposta di fede a motivazioni tutte interne. Indicano anche gli ambiti di questo intervento. Praticamente tutta la vita personale e sociale; Benedetto XVI ne fa un breve elenco: le guerre e il terrorismo, la fame e la sete, alcune terribili epidemie. Il Papa avverte inoltre il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali principi antropologici ed etici

12/10/06

Verso Verona, un contributo “fuori quota”

“In attesa di Verona 2006, per il quarto Convegno ecclesiale nazionale, anche noi vogliamo offrire il nostro contributo di preghiera, di riflessione e di esperienza. Pochi di noi parteciperanno direttamente all’evento: nello schema delle presenze, siamo considerati “fuori quota”, nonostante molti di noi siano cristiani convinti e anche ministri sacri, religiosi e religiose, presenti sul territorio, nelle cosiddette ‘opere di carità’”.
E’ l’inizio del documento scritto da Vinicio Albanesi in vista del grande evento del16-20 ottobre, e che oggi viene reso pubblico attraverso questo blog. Lo trovate in allegato a questo post. Ecco come l’autore lo introduce.

La Chiesa italiana si trova ad affrontare il prossimo decennio in evidente difficoltà.
Difficoltà interne in quanto gli orientamenti di azione sono stanchi e generici. Il clero è invecchiato e anche triste. Il laicato è silenzioso e umiliato, i movimenti e i gruppi elitari sono riferimento per i propri appartenenti, ininfluenti nell’azione di popolo. Le proposte di evangelizzazione, elaborate negli ultimi anni, sono tentativi linguistici più che proposte concrete.
Ma le difficoltà sono anche esterne. La società italiana è definitivamente secolarizzata. Gli indici di secolarizzazione sono dati oggettivi (famiglie, nascite, sincretismo religioso, cultura secolarizzata).

La proposta di speranza, elaborata dal documento preparatorio, sembra non rendersi conto della “drammaticità” della situazione: invece di affrontare frontalmente la situazione sociale e spirituale delle persone si rivolge allo stretto gruppo di fedeli che in ancora rimangono stabilmente praticanti. Uno spaccato di Chiesa sempre più marginale e stantio.

Di fronte alle difficoltà evidenti, i motivi di speranza possono partire dai drammi che la società italiana vive. Sono due i nuclei di problematicità che la Chiesa italiana può affrontare: le povertà e la solitudine. Essi interpellano direttamente l’azione della Chiesa in termini storici e insieme spirituali.

25/09/06

Eutanasia: il desiderio di morire e la vita degna di essere vissuta

Piergiorgio Welby nel suo videomessaggio al presidente Napolitano pone il problema estremo della vita e della morte. Egli dichiara che la sua vita è non vita, in quanto gli vengono negate dalla malattia tutte quelle funzioni, anche minime, che gli permettevano di essere attivo.
Qualche giorno fa, nella nostra Comunità, è morta una signora che era esattamente nelle sue condizioni: non ci ha mai chiesto di morire. E’ morta perché il cuore era esausto.
Alcune considerazioni, a proposito dell’eutanasia, possono essere utili.
La prima è che anche nelle condizioni estreme di malattia irreversibile le reazioni di chi sta male non sono affatto uguali. Non tutti desiderano la morte: anzi. C’è chi chiede disperatamente di far qualcosa oltre il limite immaginabile. Nessun protocollo sanitario oggettivo può disporre dunque il confine oltre il quale l’intervento terapeutico va interrotto. Né terzi (parenti, amici) possono disporre della vita altrui. Nel coma più profondo nessuno può dire se quella persona desiderava vivere o morire. Nella vicenda di Terry Schiavo, la ragazza americana fatta morire da terzi, il dramma è stato è che qualcuno ha deciso della vita di qualcun altro, senza averne diritto.
La seconda considerazione riguarda chi, sfinito, chiede di morire. Credo che la chiave di volta sia non già nel desiderio della morte, ma di una vita ancora degna di essere vissuta.
L’intervento sanitario, nei casi estremi, va diretto alla qualità della vita e non già alla sua durata. La questione è drammatica nella terapia del dolore. Se la malattia è irreversibile è inutile far durare qualche giorno di più la vita, facendo patire dolori indicibili. Non è giusto seguire protocolli terapeutici uguali sia se la speranza di vita sia lunga, che breve, sia con speranza di guarigione o senza.
La terza considerazione riguarda “la qualità” complessiva della vita. Il desiderio di morte si attenua se qualcuno, nonostante la malattia, è circondato da chi gli vuol bene.
Se, nonostante tutte le attenzioni, qualcuno chiede di morire, non è possibile rispondere a questo desiderio, perché nessuno può aver potere di dare morte. La morte infatti è negativa sempre e comunque. Nelle guerre, nelle devastazioni, nelle povertà e anche nelle malattie. Chi chiede di morire può invece desiderare e ottenere che l’accanimento terapeutico non prosegua senza discernimento umano. La scienza deve sempre e comunque relazionarsi con la qualità complessiva della vita e, anche per motivi nobili, non può travalicare la dignità della singola persona, della quale resta strumento.

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