31/08/01

Milingo, il danno alla religione

Chissà se la tragicommedia di Mons. Milingo e Maria Sung sarà terminata? Le agenzie hanno dettato la fine ingloriosa di una relazione che non si è compreso bene di che cosa si trattasse.
Un vecchio arcivescovo guaritore incontra e sposa una terapista coreana di una grande setta nord americana.
Data la pruriginosità della vicenda, sulla quale i giornali e le tv hanno abbondantemente inzuppato il pane per tutta l'estate, sarà già pronto qualche "geniale" romanziere o regista, capace di arricchire di suspence la storia.
La figura più brutta è stata fatta dalla Chiesa cattolica che, con sufficiente autorità, ha fatto capire di essere interessata alla soluzione del pasticcio, senza dire esplicitamente di che cosa si trattasse. Le ipotesi abbondano: coinvolgimento di Milingo da parte di una potente setta; rivendicazione dello stesso Milingo ad una attenzione maggiore alla sua persona; semplice imbambolamento, in clima surreale.
La storia è stata trattata con "serietà" da alcuni prelati, coinvolgendo anche il Papa, il quale non poteva che chiedere all'Arcivescovo di ritornare sui suoi passi, contravvenendo a tutta la prassi (risolutezza, riservatezza, scarsa comprensione) nei casi in cui un sacerdote abbandoni il sacerdozio, semplicemente "attentando" al matrimonio.
La lezione da trarre è abbastanza semplice. Ritornare alle cose serie della vita: chiedere perdono e scusa per come è stato trattato il vangelo e la fede; risolutezza maggiore nel rispetto delle regole; silenzio pietoso su una pietosa vicenda.
Il danno derivato alla religione cattolica è ben più pesante dei sorrisetti e delle battute al bar, abbondantissimi in questi giorni. Ancora una volta sembrano aver ragione coloro i quali - sempre più insistentemente - dichiarano che la religione è qualcosa di irrazionale. Varrebbe per i bambini e i vecchi, mentre la vita, con le sue regole, sarebbe appannaggio della razionalità, dell'economia e della politica. L'equazione vescovo guaritore, vescovo innamorato sembra aver rafforzato questa opinione.
E' una conclusione a cui, per tutto altro versante, sono arrivati quanti hanno rimproverato ai gruppi cattolici di essere stati presenti a Genova, suggerendo loro di dedicarsi alla preghiera.
Un filo continuo direbbe: occupatevi dell'irrazionale, lasciando perdere le cose serie della vita. Non sono solo gli anticlericali a suggerire questo: sembra siano anche alcuni cattolici praticanti. La riprova della "crisi" del cristianesimo occidentale.

16/07/01

Meglio Genova deserta

Man mano che si avvicinano i giorni dell'appuntamento a Genova del G8, fortissima si fa la convinzione di non dover andare a manifestare.
Sta infatti prevalendo, senza freni e ritegno, la teatralità della manifestazione.
La città ripulita, i panni da non stendere, le facciate dei palazzi brutti ricoperti, la chiusura delle stazioni, zona rossa e zona gialla, polizia e carabinieri, in un crescendo di drammatizzazioni che nulla hanno a che fare con la sicurezza.
Il tutto - è la giustificazione - per proteggere gli otto "grandi": talmente grandi che, proprio in questi giorni i giornali si occupano di cosine che riguardano alcuni di loro che proprio grandi non sono, ma sembrano appartenere a "ladri di polli".
Nei 25 anni che hanno visto i "grandi" riunirsi, lo spettacolo è stato sempre lo stesso. Apparenze, teatralità, nullità di fatto: nel tempo si sono scoperti interessi personali, gravi responsabilità di gestione, addirittura denunce per corruzioni, connivenze e favori.
Gli scienziati dell'economia dicono che non sono loro i padroni del mondo: i padroni abitano altrove e non fanno ritrovi pubblici; usano la telematica, vivono nell'anonimato, decidono rapidamente, spostano risorse tali da decretare i destini di interi popoli. I rappresentanti della politica non sono nemmeno i "portavoce" di chi conta. Nonostante questo si autocelebrano, fanno di tutto per apparire, spendono soldi degli altri per farsi belli.
Le organizzazioni del Genoa social forum hanno posto problemi reali del mondo: le desertificazioni, la fame, le guerre, le malattie.
Forse, per la prima volta, si è fatto capire che i problemi del pianeta appartengono a tutti e sono seri. Altro non rimane da fare: continuare a far comprendere che oramai la vita di un popolo dipende dalla vita di tutti gli altri.
Sarebbe bello che Genova fosse deserta, completamente deserta, come quando fanno brillare una vecchia bomba, con la gente a mare, a far festa, con migliaia di poliziotti a sbadigliare, a sudare inutilmente. Abbandonare gli otto ai loro regali, alle loro riunioni, alle loro manie, tutto per far capire che rappresentano le loro pochezze.
I giornalisti non saprebbero più che scrivere: hanno già raccontato tutti i contorni degli arrivi, dei regalini, del menu, dei vini e dei dolci. Non differentemente da una festa di matrimonio o di prima comunione.
Se poi i collegamenti televisivi e i tg fossero disertati, non farebbero più alcun G8. Perché le riunioni dei "grandi" servono purtroppo solo a chi le fa. E senza spettatori, lo spettacolo sarebbe annullato.

06/07/01

Il G8 felice

Fa impressione il grande numero di associazioni coinvolte nel Genoa Social Forum.
Rappresentano un vasto popolo di gruppi associati in forme legali e spontanee. Talmente numerosi che quasi si stenta a capire le linee di azione dei tanti gruppi che contestano l'incontro dei potenti del G8.
Esprimono tutti il rifiuto alla globalizzazione. In estrema sintesi al cosiddetto "popolo di Seattle" non sta bene che sia il mercato, con le sue leggi del massimo profitto, a governare il mondo.
In questa presa di posizione dovrebbe ritrovarsi la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Quasi nessuno può essere contento che siano pochi i ricchi e tutti gli altri poveri.
Nonostante questa elementare verità, il popolo dei "contestatori" è visto come un pericolo e come un rischio, anche da chi non ha nulla da guadagnare dalla globalizzazione.
La spiegazione è complessa, ma non impossibile. Il primo rifiuto è quello della violenza. Tra i contestatori c'è chi non disprezza la violenza, anzi in qualche modo è pronto allo scontro, se non alla provocazione. Di fronte alla violenza il rifiuto non può che essere netto. Si può tranquillamente dichiarare che la violenza è un buon alleato di chi si dice di voler combattere.
Il secondo motivo è la destabilizzazione dell'ordine costituito. Spesso, nel proprio precario equilibrio, si ha paura di cambiamenti che possono turbare piccoli e grandi privilegi: più facile curare la propria serenità, anche se piccola piccola. Non tutti sono in grado di avere uno sguardo ampio delle sorti del mondo.
Infine una specie di autocommiserazione impedisce di guardare mali più gravi. A quanti fanno notare ingiustizie e disparità, molti reagiscono invocando le "proprie" disgrazie, concentrandosi sui propri problemi e dolori.
A tutti noi spetta il compito e la pazienza di far capire che la contestazione non è fine a se stessa, ma è orientata a una giustizia e ad un benessere maggiore per tutti, compresi i popoli benestanti.
Il non rispetto delle persone, la loro schiavizzazione, le guerre inutili e fratricide sono mali anche per chi, lontano, si sente al riparo da simili eccessi. La terra può e deve essere governata con maggiore giustizia e umanità.
Non abbiamo nulla contro nessuno: desideriamo che i bambini non muoiano di povertà o di malattie curabili; che i fanciulli non siano schiavizzati; che i lavoratori possano vivere del loro lavoro, che le donne siano rispettate nel loro essere mogli e madri; che i vecchi possano continuare a campare nelle proprie case.
Chiedere tutto ciò non è contestare: è semplicemente voler contribuire ad una vita dignitosa e felice per tutti.

06/06/01

Il futuro esercito dei mercenari

Il Corriere della sera di oggi riporta la "crisi" dell'arruolamento di volontari per le forze armate.
Non sono stati sufficienti né i bandi di concorso "normali", né quelli eccezionali che Esercito, Marina e Aeronautica hanno attivato. Nonostante "i prestiti" di Carabinieri e di Guardia di Finanza, gli organici non sono coperti: quest'anno sono stati arruolati 2.274 persone, contro i 3.530 uomini necessari. Per avere un esercito di professionisti che la legge ha previsto per il 2006, occorrerebbe arruolare ogni anno 7-10 mila volontari: gli addetti ai lavori hanno il fondato timore che non si riuscirà a raggiungere la copertura degli organici. La "crisi delle vocazioni" dovrebbe porre domande a chi, con trionfalismo fuori luogo, ha voluto la riforma delle forze armate e l'ha ottenuta. Abolizione della legge sull'obiezione di coscienza, creazione del servizio civile, professionalizzazione dell'esercito.
Qualcuno (il generale Caligaris) ha suggerito di arruolare chiunque: immigrati e... anche gay. Di fronte alla crisi delle vocazioni, occorre chiudere un occhio e, domani, tutti e due.
I gestori della riforma, militari e politici, dovrebbero chiedersi il perché della crisi. Li aiutiamo noi: smantellato il senso di solidarietà che il servizio di leva e, in alternativa, quello del servizio civile, suggerivano, è stato introdotto quello della professione. Nessuno ha capito - compresi i militari - che la professione militare non è appetibile in quanto inutile o rischiosa, comunque onerosa.
Avranno l'unica alternativa di ricorrere ai "mercenari": italiani e stranieri, normali e speciali, uomini e donne. Dovranno alzare - ma di molto - il prezzo dei compensi. Saranno proporzionati alla rarità della domanda. Copriranno così gli organici. L'Italia ha ricordato "grandi capitani di ventura": ora con un signorotto, ora con l'altro. Non bisogna poi meravigliarsi troppo, se tutto è diventato merce, compresa la difesa della patria.

15/05/01

Senza illusioni

La vittoria ampia della Cdl ha mostrato chiaramente che il programma del centro-destra è stato accolto come il migliore possibile per il futuro d'Italia. Invocare personalismi, televisioni, campagne pubblicitarie non ha grande senso. E' vero che sono state determinanti per la vittoria, ma tutti gli strumenti usati sono stati utilizzati per dei contenuti che, sostanzialmente, tendevano a tutelare i ceti benestanti d'Italia. Al sogno del benessere hanno creduto anche coloro che certamente non erano e non sono in condizione di benessere.
E' un meccanismo molto antico - i poveri credono ai ricchi - che ha funzionato in Italia, ma che funziona anche in altre parti del mondo.
A partire da questa vittoria, a tutte le organizzazioni di non profit restano due strade. La prima - già esplicitata da alcuni in questi primi momenti – è quella di strappare qualche concessione al futuro governo. Dichiarare che si aspettano le cose da fare è inutile. Il centro destra ha detto che cosa farà: in questo futuro le fasce marginali della popolazione non hanno spazio, perché sono ritenute irrilevanti e alcune anche pericolose. Per sè, in quanto non esprimono risorse, per gli altri in quanto costituiscono solo problema.
Aspettare significa, in questo caso, solo chiedere qualche piccola-grande concessione per la propria sopravvivenza.
E non è escluso che il centro destra non la conceda. Ma per chi opera nel sociale ciò non può essere sufficiente: per il semplice fatto che si autorizza una specie di assistenzialismo di ritorno che porta dalla parte opposta del richiedere il rispetto dei diritti.
Avevamo già detto che in questa campagna elettorale, i soggetti marginali non erano stati protagonisti, ma nemmeno "oggetto" di attenzione. La vittoria della Cdl conferma quel giudizio e mette la parola fine ad ogni illusione.
Rimane dunque una seconda strada: quella di riprendere in mano i contenuti e l'esigibilità dei diritti sociali e, proprio in virtù del clima generale, non mollare la presa.
Molto prima di quanto si immagini, si capirà quali sono gli interessi" del ceto medio; occorrerà non far dimenticare i diritti di tutti i cittadini.
Da qui la riflessione e l'impegno serio, apparentemente sterile, ma indispensabile, perché i soggetti deboli non siano abbandonati alla deriva.
Un impegno duro e severo: per rivedere la propria storia, per seguire l'andamento delle vicende politiche e sociali, per ridestare la coscienza critica e vigile di quella parte della popolazione che crede ancora al sogno dell'uguaglianza e delle pari opportunità.

07/05/01

Elezioni: poveri e irrilevanti

Pur nella vivace campagna elettorale, salta all'occhio "lo stile comune" che i due poli, insieme agli schieramenti minori, hanno assunto nei confronti degli elettori, con i linguaggi usati e i programmi proposti.
Come interlocutori sono scomparse tutte quelle persone che, per situazione, condizione sociale, cultura, sono "poveri"; con linguaggio internazionale, potrebbero essere individuate come "popolazione vulnerabile": donne, gente del sud, famiglie povere, pensionati, malati, categorie a rischio, stranieri.
Non sono stati considerati "soggetti", ma nemmeno "oggetti" di attenzione.
Eppure sono milioni e milioni di persone: oltre sette milioni di poveri censiti; due milioni e mezzo di disabili; 600 mila malati di mente; un milione e mezzo di stranieri; oltre mezzo milione di malati cronici seri; 600 mila lavoratori precari.
L'attenzione nei loro confronti, pure presente con qualche accenno nei programmi (Legge Tremonti del sociale per il Polo delle Libertà; welfare state per l'Ulivo) fa emergere l'irrilevanza degli interventi stessi rispetto alle grandi politiche necessarie al paese. Non fanno parte nemmeno della categoria degli “indecisi”, alla quale spasmodicamente le forze politiche dicono di rivolgersi.
Al di là del dispiacere di simile atteggiamento, la preoccupazione diventa grande per una svolta epocale nella vita politica della nostra Italia: il consenso sembra essere riservato a un numero ristretto, sempre più ristretto di persone: il dubbio è che stiamo ritornando al voto per "censo". Un censo che non è solo economico, come nell'Ottocento, ma anche culturale, di stili di vita e di relazione.
Se questa tendenza si rafforzerà, due sono le conseguenze: la prima che i vincitori risponderanno ad un "solo" tipo di elettore, quello appunto che hanno scelto come interlocutore adeguato; la seconda è che esisterà una popolazione marginale nemmeno degna di attenzione: costoro avranno diritto solo alla sopravvivenza silenziosa, senza diritti e senza soggettività civile.
La riprova di questa tendenza è nello stesso atteggiamento che hanno assunto i grandi mondi del volontariato, del privato sociale, di quanti fanno da cerniera tra la povertà e la normalità.
Silenziosi e acquattati, in attesa dei vincitori, senza più la forza e il coraggio di rivendicare rispetto e dignità per tutti, pronti a girare per sé eventuali benefici di legge.
Non si tratta - come è facile immaginare - di tutelare ancora qualche categoria svantaggiata, ma di sapere qual è l'impalcatura dei rapporti tra le persone in un paese civile.
I modelli proposti dai due poli sono certamente molto diversi: il primo ha tutte le caratteristiche dell'onnipotenza del denaro, del potere, dell'immagine; il secondo è più attento alla socialità e all'uguaglianza. Il limite invalicabile rimane il rispetto di tutti, senza altra considerazione. Rinunciare, in politica, a questo principio significa ritornare indietro, terribilmente indietro.

06/04/01

La vergogna psichiatrica

La giornata mondiale della salute mentale ripropone, ancora una volta, uno degli aspetti più problematici, dolorosi e ambigui della tutela della salute in Italia. 
Passi lenti verso una riforma, annunciata con grandi battaglie ideologiche e grandi evviva nel 1978, con la celebre legge 180 (legge Basaglia) e naufragata nei meandri di ritardi, perplessità, poteri (occulti e manifesti), abbandoni. 
Solo recentissimamente è stata decretata la fine dei manicomi (non chiusi ovunque); la sofferenza psichiatrica rimane in carica, sostanzialmente alle famiglie. 
Tutta una serie di strutture intermedie (comunità alloggio, comunità protette, centri diurni, appartamenti, centri riabilitativi) esistono e non esistono. 
Un po’ come per la lotta al dolore, l'Italia rimane indietro non si sa bene perché: una certa sofferenza che deriva da disturbi psichiatrici sembra essere "doverosa" in nome della normalità. 
Senza che, per tutto questo, si riescano a capire motivi, tempi e risvolti dei ritardi.
Gli indugi vanno rotti a nome della dignità delle persone: si potrebbe osannare ai passi avanti nella cura della sofferenza psichiatrica, con i risultati raggiunti. Non è il caso, perché la cura dei "nuovi matti" è ancora incerta e precaria. 
Non spetta a noi attribuire responsabilità: a ciascuno la sua. Agli addetti ai lavori, alle istituzioni, alla coscienza civile, alle organizzazioni sociali. 
Non è possibile che di fronte a malattie che coinvolgono gli equilibri di intere famiglie, persistano mancanze e incertezze. A meno che, la razionalità, virtù principe della cultura occidentale, ne disprezzi la mancanza. In questo caso, sarebbe la fine, perché non esisterebbero alternative. 
Proprio la razionalità e la dignità delle persone, pietre miliari della civiltà, ci impediscono di considerare le persone, con malattie psichiatriche, "cittadini di secondo ordine".

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