10/10/02

Volontariato, non vogliamo tornare alle origini

Si apre domani ad Arezzo la IV Conferenza nazionale sul volontariato.
Il parterre prevede la presenza di sei Ministri e mezzo.
In compenso i gruppi, nazionali e internazionali, sono liquidati con un “testimonianze”: una specie di teatro nel quale gli interpreti principali non sono coloro ai quali è dedicata la conferenza, cioè i volontari, ma Ministri e Ministre, i quali, con grande enfasi, narreranno l’importanza e l’insostituibilità dei volontari. Un esercito di “buontemponi”, i quali, con grande generosità, mettono una pezza alle non risposte che lo stato dovrebbe dare, se avesse a cuore il benessere di tutti i suoi cittadini, soprattutto più deboli.
Io non andrò: non ne vale la pena. Non per preconcetto, ma per il semplice motivo che è inutile fare clacca: è preferibile il motto benedettino “ora et labora”, “prega e lavora”, perché le povertà, antiche e nuove, sembrano sempre più frequenti e gravi, con l’aggravante, ahimè, delle risorse di aiuto minori.
Chissà, se per questo motivo, è stata scelta la figura del bambino povero che riceve da un nobile con giacca di velluto un “tozzo di pane”. L’on. Sestini ha dichiarato che la scelta è stata fatta per “tornare alle origini”, riprendendo il particolare di un affresco di S. Maria della Scala a Siena, del 1200.
Ebbene non vogliamo tornare alle origini: non vogliamo che i bambini soffrano e chiedano la carità. Ne vediamo troppi ai semafori e sappiamo che sono rom, spesso schiavizzati da adulti violenti e profittatori.
Avevamo sognato uno stato democratico, attento ai bisogni di chi stava male, con interventi capaci di alleviare dolori alle famiglie e di dare dignità a chi era in difficoltà, qualunque fosse stato il motivo di fragilità.
Ci ritroviamo a ricominciare daccapo: sempre daccapo, con una specie di maledizione che ci accompagna, che preferisce le briciole di evangelico ricordo, ai diritti della dignità moderna.
I gesti di “carità” aggiungono qualcosa di bello e di dignitoso, se poggiano su una protezione sociale solida e consistente, altrimenti diventano un pericoloso alibi di ingiustizia.
Noi, qualunque siano le indicazioni che vengono da Arezzo, continueremo a stare al nostro posto. Troppe richieste ci assalgono; tutte persone deboli e fragili nel contesto sociale: chi per salute fisica, chi per salute mentale, chi per difficoltà familiari e sociali. L’Italia grande e prospera nasconde infinite tragedie di malessere e, non si dimentichi, di vere e proprie povertà.
Con tristezza registriamo, al di la delle conferme, che le risorse saranno scarse. In fondo è stato sempre così: a chi ha poco, si chiede di stringere la cinghia, forse perché è abituato a non essere esigente. Ma non è giusto, aggiungiamo noi.
Le cifre sbandierate sulla finanziaria non solo non sarebbero abbondanti, ma costerebbero alle famiglie più bisognose 300 euro a mese, così come denuncia un recente studio della CGIL.
Ci risponderanno che non sappiamo leggere. Stavolta ci consoliamo perché siamo in buona compagnia: è stato risposto così anche alla Confindustria che, come si sa, ha tanti difetti, ma certamente non quello di non saper fare i conti.

04/10/02

Desiree: le risposte degli adulti

Questa mattina è stato ritrovato il cadavere di Desiree Piovanelli, la quattordicenne scomparsa da alcuni giorni dalla sua casa, in un paese del Bresciano. La ragazza è stata uccisa con un’arma da taglio. Il principale sospettato è un suo coetaneo, che è stato fermato e avrebbe confessato.
Gli adulti si interrogheranno sul perché della morte violenta, assurda e inutile di Desiree.
Non riceveranno risposte dal ragazzo che l’ha uccisa, perché quel ragazzo, qualunque sia la risposta, non darà spiegazioni sufficienti per il delitto.
La risposta va chiesta agli adulti; non certo ai genitori di quel ragazzo, ma a tutti gli adulti, genitori ed educatori, che frequentano gli adolescenti.
I ragazzi di oggi sono materia e spirito informi: flaccidi e violenti insieme; intelligenti e miopi, affettuosi e anaffettivi, generosi e cinici.
Sono gli adulti che li hanno così concepiti e allevati. Attenti ai loro bisogni si mostrano incapaci di fornire loro strutture interiori di sostegno: li amano e li abbandonano, li guidano e li disorientano.
Il messaggio centrale che gli adulti offrono ai più giovani si sintetizza nell’obiettivo della felicità, senza fornire contenuti, strumenti e limiti della felicità stessa.
Pensa il mondo esterno degli adulti a dir loro che saranno felici se saranno ricchi, sani, forti e visibili.
L’adolescente cresce come cane da tartufo in ricerca di felicità: se qualcosa gli si frappone, cambia strada, continuamente, fino ad impazzire: così a scuola, in famiglia, con gli amici.
Si sono abituati a dover sopravvivere alle contraddizioni degli adulti che fin da piccoli hanno vissuto: bene e male gestiti nella contraddizione, senza mai un segno di qualcuno che abbia detto che cosa era giusto e sbagliato, che cosa possibile e impossibile.
Nella superficiale attenzione a loro, gli adulti hanno taciuto sulle proprie scelte, sui propri errori e sulle proprie contraddizioni. Non hanno mai parlato, né si sono mai comportati come adulti, ma hanno molto nascosto, con la furbizia di spingere verso la felicità. Chi d’altronde, può essere contrario alla felicità?
I nostri adolescenti sono così nulla e nessuno, tutto e il contrario di tutto, compresi i profondi richiami alla violenza e alla estrema generosità.
Il tempo cancellerà purtroppo la morte di questa bambina. I Giudici e gli Avvocati si accaloreranno per sapere se e quanto l’omicida sia cosciente: situazioni che non consoleranno nemmeno i genitori della ragazza.
Rimane il problema della crescita e dell’educazione dei nostri ragazzi, immersi in un mondo “meticciato” del supermercato. Con dentro di tutto o quasi, senza che nessuno abbia il coraggio – magari sbagliando – di dire che cosa può essere acquistato, che cosa buono e che cosa pericoloso.
La cronaca ingrosserà, nel tempo, gli interrogativi: le risposte ritorneranno puntuali agli adulti che hanno voluto ed educato o diseducato i piccoli.

19/09/02

La guerra, la paura, la solitudine

Ogni giorno diventa sempre più possibile una nuova guerra in Iraq. Non è questo l’ambito nel quale discutere le ragioni che possono giustificare o no un nuovo conflitto: altre voci più competenti e autorevoli possono suggerire i motivi della giustezza o no della guerra che si prospetta.
Pensiamo invece ai cosiddetti “effetti collaterali” che ogni guerra comporta. Chi è avanti negli anni ricorda almeno l’ultima guerra mondiale che ha coinvolto l’Italia, con tutta la serie di tragedie, di solitudini e di sofferenze della popolazione intera. In ogni angolo d’Italia, nelle piazze, nelle cappelle o nei cimiteri le lapidi con i nomi dei ragazzi ricordano i giovani che hanno dato “la vita per la patria”, i racconti dei sopravvissuti descrivono le sofferenze patite.
Noi abbiamo sperimentato direttamente l’ultimo conflitto in Kossovo, avendo dato aiuto alle popolazioni di quel paese rifugiate in Albania, nei “campi profughi” che rimangono terribili, nonostante ogni sforzo di renderli umani.
La prima reazione che ti raccontano è la paura. La paura di morire. Nelle guerre moderne non muoiono più i soldati, ma la semplice popolazione. Che un villaggio, una famiglia o una persona si ritrovi in mezzo al rischio di vita è un dato assoluto, non gestibile. Dipende dalle operazioni militari, dallo svolgimento del conflitto, da circostanze alle quali si può rispondere solo scappando. E guai a trovarsi in un “territorio” dove si svolge un vero e proprio conflitto. Scappi come un animale, non sapendo se una bomba, una granata, un missile o un cecchino mette fine alla tua vita, come il fatto più naturale del mondo.
Lo scappare produce un effetto di sbandamento che è interiore, prima che fisico. Non hai riferimenti locali e affettivi. Rimani solo al mondo, perché senza la normalità della vita, della casa, dell’ambiente dove sei vissuto, sei come sradicato.
Coloro che soffrono di più questo sradicamento sono i bambini: sembrano normali, continuano a giocare, ma avverti degli improvvisi vuoti. Si fissano muti, pensando a qualcosa che non riesci a decifrare. E’ la paura che, nella fantasia dei piccoli, diventa incubo, ossessione. Ricordo le infinite richieste di visite mediche che gli adulti, ma che soprattutto le mamme chiedevano per i propri figli, nei campi profughi: persone, sane come pesci, che insistevano in malori e sensazioni che non sapevano nemmeno loro descrivere. Ma anche senza malori, la visita medica aveva l’effetto di placare la paura.
Impressionante è anche la solitudine che la guerra comporta. Tra la popolazione inerme non è vero che scatta la solidarietà. Sradicato dal proprio ambiente, ognuno è costretto a sopravvivere. L’ansia di non farcela, le effettive condizioni di povertà portano all’isolamento più totale, con la conseguente diffidenza verso tutti, anche perché la guerra produce una diaspora molto più grave di quanto si immagini. Chi è costretto a scappare sceglie una propria strada che lo isola dal resto degli amici e dei conoscenti. Sono le donne, i bambini e gli anziani a costituire il nucleo delle vittime. Gli uomini adulti sono sempre lontani a combattere; rimangono i deboli, costretti a badare da soli a se stessi.
La solitudine produce il torpore della vita, che porta la popolazione profuga a sopravvivere. Non c’è iniziativa od occasione che possa scuotere i lunghi giorni o mesi di permanenza lontana dalla propria casa.
Gente attiva, concreta, abituata nella vita normale a lavorare, improvvisamente si fa esigente, passiva, incapace di organizzarsi.
L’unico pensiero che rimane è quello del ritorno alla propria casa; comunque sia ridotta, comunque esista.
Quando scoppiò “la pace” in Kossovo, i primi a partire furono coloro che avevano un’automobile. La radio e la televisione avevano annunciato che sarebbe stato dato l’ordine di rientro solo dopo aver verificato le condizioni minime di permanenza. Non ci fu nulla da fare: chi aveva possibilità ...

31/07/02

Dettagli di una giustizia di ricchi per ricchi

"Le tele dei ragni pigliano le mosche
e lasciano scappare le vespe" (Plutarco)
In questi giorni assistiamo all'accanimento dei rappresentanti del nostro popolo su alcuni "dettagli" di giustizia. Era già successo per i problemi legati al falso in bilancio; ora è la volta del legittimo sospetto.
Dettagli di un quadro che tutti, cittadini e addetti ai lavori, definiscono disastroso, se oltre il 70% dei cittadini italiani si è dichiarato insodddisfatto di come è amministrata la giustizia.
Il primo obiettivo generale della Direttiva del Ministro della Giustizia per l'anno corrente faceva ben sperare: riguardava le modifiche per la normativa che desse la certezza del reato, del processo, della pena e della durata ragionevole del processo stesso.
Chi era stato vittima di un furto, di un borseggio, di un imbroglio finalmente, in poco tempo, avrebbe avuto giustizia.
La logica era dunque si mettesse mano su quel complesso mondo del triangolo composto dalla vittima-avvocato-giudice che è poi l'attività giudiziaria.
Assistiamo invece a discussioni accanitissime intorno a marginali questioni che hanno poco a che fare con la richiesta di sicurezza e con i milioni di processi in corso in Italia.
La domanda sul perché avvenga questo è dunque pertinente. Senza entrare nel cuore delle attuali questioni, l'unica risposta che siamo riusciti a dare è che la giustizia è ancora una volta problema di ricchi per ricchi.
Un'antichissima tentazione che ha attraversato la storia occidentale ed è attuale.
Non a caso Plutarco ha lasciato scritto che "le tele dei ragni pigliano le mosche e lasciano scappare le vespe", per dire che la giustizia spesso colpisce i piccoli e risparmia i grandi.
Non rimane che aggiornare ai nostri giorni la triste constatazione che continua lo scempio di una giustizia umana che non è tale, perché non è equa, né efficiente, né morale.
E' ancora una questione di censo e di potere. Addirittura l'avvento di complesse e farraginose norme, dietro la facciata di presunta democrazia, nasconde la raffinata intenzione di tutelare i pochi che hanno conoscenze e soprattutto risorse capaci di entrare nei complessi meccanismi di giustizia.
Al povero cristo che rimane vittima, rimane la scelta di lasciar perdere o di dar fondo ai pochi risparmi disponibili: la probabilità di ottenere giustizia, per la nostra modernissima Italia, è talmente bassa da sfiorare lo zero.

25/07/02

Dpef: tranquilli, per il sociale si considererà l’ipotesi di un sostegno

Il Dpef è una specie di enciclica laica che il governo di turno è costretto a scrivere, illustrare e molto meno a rispettare.
Difficile capirlo tra le pieghe dei paroloni, per chi non è addettissimo ai lavori: figurarsi per chi è preposto al sociale che, per definizione corrente, non è produttore di ricchezza, ma caso mai dissanguatore.
Il documento di quest'anno ha solenni dichiarazioni generali anche per il sociale.
"La stabilità, le riforme, lo sviluppo, l'equità" sono le colonne portanti del documento.
Sul sociale gli intenti, ancora più solenni: la famiglia è stata scelta quale obiettivo centrale di intervento, per "procedere alla modernizzazione, al potenziamento, alla facilitazione dell'accessibilità e della fruibilità di tutti i principali servizi: assistenza domiciliare ai malati cronici, ai disabili, agli anziani e un procedere infine a una celere realizzazione del "piano nazionale degli asili nido" aziendali, interaziendali, di quartiere e pubblici".
Se non che - qui incominciano i problemi - il documento avverte che tutto ciò potrà essere realizzato, compatibilmente con "le esigenze della finanza pubblica". L'obiettivo, molto più modesto, alla fin fine diventa: "Il Governo, pertanto, intende, nell'ambito delle compatibilità di finanza pubblica, almeno consolidare le risorse destinate alle attività indicate nel Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali, al livello dell'anno 2002, prevedendo comunque la possibilità di integrare il Fondo nazionale per le politiche sociali per ulteriori iniziative a sostegno delle attività sociali."
In soldoni, se tutto va bene, si rimane a livello di quest'anno, con tutti i problemi connessi di risorse mancanti.
Nello stesso momento dell'annuncio del Dpef infatti, il Ministro della sanità dichiarava che non c'erano risorse per gli anziani e i malati cronici; quello dell'Istruzione rivedeva in basso l'assistenza degli handicappati nelle scuole; le Regioni e i Comuni lamentavano i tagli alla spesa sociale.
Le conclusioni, per il sociale, sono purtroppo desolanti. Nessun diritto sociale è esigibile: ai problemi delle fasce deboli rimangono le briciole. Con un'avvertenza: anche le briciole stanno terminando.
Essendo stata promessa la riduzione delle tasse; non essendosi attivato lo sviluppo economico previsto, non rimane che limare, ancora una volta, le poche risorse dei disperati.
In compenso, se a qualcuno è sufficiente, lodi sperticate alle associazioni del non profit, il cui "valore" il Dpef riconosce ogni oltre limite. Infatti "La positiva valutazione degli interventi svolti dalle associazioni di volontariato e da organismi senza scopo di lucro nel campo dell'assistenza ... pone la necessità da parte del Governo di considerare un ulteriore sostegno per tali attività, affinché l'esperienza maturata possa essere riprodotta e potenziata."
Si badi bene: si considererà l'ipotesi di un sostegno; nemmeno la si assicura.
Mai letto un documento economico, con così tanti condizionali.

12/07/02

La “logica” di fondo

In contemporanea, due notizie significative illuminano la linea "sociale" governativa.
Con l'approvazione della legge Bossi-Fini si stabilisce definitivamente che gli immigrati possono essere accolti solo se produttori di valore aggiunto alla nostra economia.
Con un contratto di lavoro in mano, con un buon italiano almeno parlato, possono andare e venire nel nostro paese, a condizione di essere ritenuti utili alla sviluppo economico: senza diritti e senza pretese.
Per il resto non disturbino e non appellino a "misericordie" che sono possibili solo come occasioni di lavoro: dichiarazione di un ministro "cattolico".
Dell'approvazione della legge i partiti di maggioranza si dicono soddisfatti, sicuri di aver dato un forte contributo alla sicurezza del paese. Probabilmente interpretano la cultura mercantilistica della nostra gente, niente affatto schifata da un latente sfruttamento, contrabbandato addirittura come solidarietà. La logica stringente della legge dice: in fondo questi neri sono utili. Li accogliamo e li teniamo d'occhio: le impronte digitali a loro richieste, i contratti di lavoro indispensabili per rimanere in Italia sono due lucchetti che non lasciano loro spazio.
Il solidarismo, i pari diritti e tutte le altre sciocchezze di buonismo li lasciamo a preti, vescovi e associazioni varie che parlano, parlano perché non hanno il senso dell'economia.
Quello stesso senso economico che non hanno quando ci si occupa di sanità. Le risorse nella sanità non bastano. E che pensa il Ministro Sirchia? Per tutte quelle categorie improduttive (vecchi, disabili, cronici) che sono inutili e fanno spendere troppo inventiamo delle assicurazioni. Quando uno sarà vecchio si ritroverà in un cronicario o in una clinica, a seconda di come avrà versato a risparmio. A ognuno il suo e arrivederci e grazie.
Che di questa politica sociale siano contenti, dicono, i rappresentanti dei ricchi, non meraviglia; meraviglia invece che il consenso sia largo e popolare.
Vorrà dire che le associazioni non profit cattoliche e laiche torneranno all'elemosina, raccogliendo anche per i nostri vecchietti, disabili e cronici, pacchi dono a Natale, ma anche roba vecchia per tombole e pesche, come ai bei tempi.
Fino ad ora, sembra dire qualcuno, questi poveri hanno goduto troppo. E' ora di tornare alla normalità: con un po’ di cannonate in mare se serve contro gli intrusi e un bel po’ di elemosina che non guasta per lenire i peccati.
Bisognerà firmare una petizione perché nella nuova carta costituzionale europea non compaia né il cristianesimo, né Dio, abbondantemente dimenticati e offesi nella pratica: così non si cita il nome di Dio invano.

05/06/02

Una legge piccola piccola

La nuova legge sull’immigrazione è in dirittura d’arrivo. Prima dell’approvazione definitiva sono probabili aggiustamenti e ritocchi; la sostanza è comunque già abbondantemente definita.
Nata per contrastare l’immigrazione clandestina e rispondere alla richiesta di sicurezza da una parte e di manodopera dall’altra, si è trasformata, nell’attuale stesura, in una “piccola, piccola legge” di stile coloniale”.
L’ingresso di extracomunitari nel nostro Paese sarà possibile, sostanzialmente, per motivi di lavoro. Lo Stato italiano ai cittadini extracomunitari dice semplicemente: “Potete venire solamente se e in quando sarete lavoratori. Verrete se avremo bisogno di voi, dopo aver esaurito tutte le risorse umane interne al nostro Paese e potrete rimanere in Italia esclusivamente se continuerete a essere lavoratori”.
Le modalità tecniche della legge mirano, infatti, a questo unico obiettivo: contemporaneità del contratto di lavoro e del permesso di soggiorno, fissazione delle quote di ingresso, abolizione dell’istituto dello sponsor, procedure di espulsione, identificazione dello straniero, e un lasso di tempo limitato per la ricerca di un nuovo lavoro, in caso di disoccupazione.
In parole povere, ogni ingresso è permesso solamente se lo straniero è portatore di valore aggiunto all’economia nazionale. Ogni altra considerazione è fuor di luogo: per questo la legge è “coloniale”. Sono rimodellati al basso i diritti civili e umani: si crea così – e non da oggi – un diritto speciale per gli stranieri, con attenzione alla loro produttività, dalla quale esclusivamente dipende la permanenza in territorio italiano, la possibilità della privazione delle libertà individuali nei cosiddetti “campi” o l’esigenza delle impronte digitali, quale mezzo di identificazione, a prescindere da ogni altro strumento legale di riconoscimento. Lo Stato di origine dell’immigrato viene semplicemente ignorato dal provvedimento, con disprezzo di ogni corretto rapporto internazionale.
Nessuna considerazione, e tanto meno impegni, nella legge per i problemi economici e sociali dei Paesi dai quali l’emigrazione proviene; nessun impegno per l’integrazione; nessuna considerazione per i problemi legati alla casa, alla lingua, alla vivibilità della vita di extracomunitari lavoratori.
Il lavoratore extracomunitario deve essere competitivo, arrangiarsi e stare attento a non farsi licenziare: una perfetta macchina produttiva ricattabile.
Sembrano saldarsi interessi e furbizia, con la ricerca di buoni risultati economici a basso costo.
E’ una legge piccola, piccola quella che sta per essere approvata: l’ondata migratoria, di cui le cronache giornalmente ci informano, la clandestinità, i luoghi degradati delle nostre città non nascono dal caso o dalla cattiveria di gente malvagia.
Due, almeno, dovevano essere gli obiettivi centrali di una nuova legge sull’immigrazione: un grande piano – italiano ed europeo – di investimenti nei Paesi di origine delle migrazioni, così da abbassare la pressione migratoria: e un serio piano di integrazione degli stranieri presenti in Italia.
Si è preferito, invece, accentuare lo stato di polizia: una simile politica ha il fiato corto e alla lunga non sortirà effetti. La clandestinità diventerà un gioco duro e sarà gestito, ancor di più, dalla criminalità internazionale e nazionale, grazie anche alle complicità, tutte italiane, che la alimentano. L’esigenza della sanatoria delle “serve”, eufemisticamente chiamate badanti, e forse – che grande discussione – dei lavoratori in nero, ne sono già purtroppo riprova.
(Pubblicato su Famiglia Cristiana n. 23/2002)

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