L'Enciclica "Deus caritas est” di Benedetto XVI è di una novità assoluta: per la prima volta un insegnamento solenne di un Papa offre i fondamenti teologici dell"azione caritativa della Chiesa. Mentre altri Pontefici avevano affrontato la questione in termini di “dottrina sociale”, Benedetto XVI va alla radice del perché la Chiesa deve agire caritativamente.
Lo scritto del Papa unisce, in termine di stile, la familiarità propria del teologo (usa infatti la prima persona singolare e non il noi) e, nel corso del suo scrivere, annuncia, dimostra e propone. Per chi, come noi, agisce nel mondo dell’impegno sociale, l’enciclica diventa prezioso punto di riferimento. Il Papa segue un filo molto logico che si dipana in tre passaggi: il primo filosofico; il secondo teologico; il terzo pastorale.
Nella prima parte dell’enciclica (nn. 2-11) il documento dimostra che tra Dio e l’umanità esiste un vincolo di profonda unione. La distinzione tra eros e agape, se poneva, nelle culture pagane (soprattutto greca) una contrapposizione tra l’umanità e la divinità, con il cristianesimo, l’immagine dell’unità è espressa dal matrimonio che significa vincolo esclusivo nella fedeltà e nel tempo. Con riferimenti biblici, la conclusione del Papa è lapidaria: tra Dio e l’uomo non esiste contrapposizione, ma unione intima, profonda ed esclusiva.
Il secondo passaggio è teologico (nn. 12-18). Con la venuta di Cristo, Dio manifesta il suo amore inviando il Figlio, che, con la croce, porterà a compimento l’amore gratuito di Dio per salvare l’umanità ferita. Cristo, con la sua vita e la sua morte, dimostra che esiste un unico amore: quello di Dio e quello del prossimo. Il ricordo storico di questa verità Cristo è l’eucarestia: “Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi”. (n.14).
Il terzo passaggio dell’enciclica è pastorale (nn. 19-39). Dall’unità dell’unico amore deriva, in forza dello spirito, l’azione della Chiesa. In termini espliciti il Papa dichiara: “a) La carità non è per la Chiesa una specie di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile alla sua stessa esistenza”. b) La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza di necessario.” (n.25).
Come conseguenze di queste affermazioni il Papa affronta questioni più dettagliate. Una prima questione è quella della giustizia (n. 26-29); una seconda quella delle strutture di servizio (n. 30); per poi passare a descrivere il profilo specifico dell’azione caritativa della Chiesa (nn. 31-39).
A proposito della giustizia il Papa affronta l’obiezione marxista che l’azione caritativa della Chiesa sarebbe correa dell’ingiustizia. Dopo aver riconosciuto ritardi nella comprensione dei fenomeni moderni di ingiustizia, il Papa citando la recente attenzione ai problemi sociali (a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII (1891), cita le principali sette encicliche dei suoi predecessori, fino ad arrivare al “Compendio della dottrina sociale della Chiesa, di recente pubblicazione) rivendica per la Chiesa un’azione specifica. Sono introdotti due compiti specifici: “la purificazione della ragione”; “il servizio dell’amore”. La purificazione consiste nel preservare l’azione umana dal suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere. Il servizio dell’amore è orientato a lenire la sofferenza con la consolazione e l’aiuto. Un impegno concreto contro la solitudine (n.28). Queste funzioni specifiche dell’azione di carità costituiscono una vera novità nel rapporto tra fede e politica (alla quale il Papa riconosce una sua autonomia). Pur riconoscendo strumenti di collaborazione con le strutture pubbliche (utilità delle notizie e della cooperazione) e pur delineando nell’azione della Chiesa l’impegno concreto contro la ...