La nuova legge sull’immigrazione è in dirittura d’arrivo. Prima dell’approvazione definitiva sono probabili aggiustamenti e ritocchi; la sostanza è comunque già abbondantemente definita.
Nata per contrastare l’immigrazione clandestina e rispondere alla richiesta di sicurezza da una parte e di manodopera dall’altra, si è trasformata, nell’attuale stesura, in una “piccola, piccola legge” di stile coloniale”.
L’ingresso di extracomunitari nel nostro Paese sarà possibile, sostanzialmente, per motivi di lavoro. Lo Stato italiano ai cittadini extracomunitari dice semplicemente: “Potete venire solamente se e in quando sarete lavoratori. Verrete se avremo bisogno di voi, dopo aver esaurito tutte le risorse umane interne al nostro Paese e potrete rimanere in Italia esclusivamente se continuerete a essere lavoratori”.
Le modalità tecniche della legge mirano, infatti, a questo unico obiettivo: contemporaneità del contratto di lavoro e del permesso di soggiorno, fissazione delle quote di ingresso, abolizione dell’istituto dello sponsor, procedure di espulsione, identificazione dello straniero, e un lasso di tempo limitato per la ricerca di un nuovo lavoro, in caso di disoccupazione.
In parole povere, ogni ingresso è permesso solamente se lo straniero è portatore di valore aggiunto all’economia nazionale. Ogni altra considerazione è fuor di luogo: per questo la legge è “coloniale”. Sono rimodellati al basso i diritti civili e umani: si crea così – e non da oggi – un diritto speciale per gli stranieri, con attenzione alla loro produttività, dalla quale esclusivamente dipende la permanenza in territorio italiano, la possibilità della privazione delle libertà individuali nei cosiddetti “campi” o l’esigenza delle impronte digitali, quale mezzo di identificazione, a prescindere da ogni altro strumento legale di riconoscimento. Lo Stato di origine dell’immigrato viene semplicemente ignorato dal provvedimento, con disprezzo di ogni corretto rapporto internazionale.
Nessuna considerazione, e tanto meno impegni, nella legge per i problemi economici e sociali dei Paesi dai quali l’emigrazione proviene; nessun impegno per l’integrazione; nessuna considerazione per i problemi legati alla casa, alla lingua, alla vivibilità della vita di extracomunitari lavoratori.
Il lavoratore extracomunitario deve essere competitivo, arrangiarsi e stare attento a non farsi licenziare: una perfetta macchina produttiva ricattabile.
Sembrano saldarsi interessi e furbizia, con la ricerca di buoni risultati economici a basso costo.
E’ una legge piccola, piccola quella che sta per essere approvata: l’ondata migratoria, di cui le cronache giornalmente ci informano, la clandestinità, i luoghi degradati delle nostre città non nascono dal caso o dalla cattiveria di gente malvagia.
Due, almeno, dovevano essere gli obiettivi centrali di una nuova legge sull’immigrazione: un grande piano – italiano ed europeo – di investimenti nei Paesi di origine delle migrazioni, così da abbassare la pressione migratoria: e un serio piano di integrazione degli stranieri presenti in Italia.
Si è preferito, invece, accentuare lo stato di polizia: una simile politica ha il fiato corto e alla lunga non sortirà effetti. La clandestinità diventerà un gioco duro e sarà gestito, ancor di più, dalla criminalità internazionale e nazionale, grazie anche alle complicità, tutte italiane, che la alimentano. L’esigenza della sanatoria delle “serve”, eufemisticamente chiamate badanti, e forse – che grande discussione – dei lavoratori in nero, ne sono già purtroppo riprova.
(Pubblicato su Famiglia Cristiana n. 23/2002)