04/09/07

Almeno, cari Sindaci, non invocate la giustizia

Ai Sindaci di Roma, Torino, Bologna, Firenze
Gentilissimi Signori, uomini di sinistra, improvvisamente, vi siete svegliati attivandovi perché le vostre città (città grandi) godessero di sicurezza.
Vi siete accorti dei lavavetri, della micro e macro criminalità, dell'immigrazione clandestina, delle vendite abusive, della prostituzione e avete deciso di dire basta, invocando il rispetto delle regole.
Gli abitanti delle vostre città hanno detto: finalmente, era ora. Non avendo altri strumenti avete invocato la legge penale, pensando di fare cosa giusta.
Il lato debole delle vostre recenti iniziative è il doppio passo che usate costantemente nei confronti dei cittadini che amministrate.
Voi non invocate sempre legalità, ma sopportate molte illegalità sul vostro territorio, quando esse sono a beneficio degli abitanti "doc”: abusivismo nell"edilizia, nel commercio, nella pubblicità, nell’uso dei beni pubblici, nell’accoglienza etc.
Non controllate, come dite, il vostro territorio, ma sopportate (e alimentate) una diffusa legale illegalità. Siete molto prudenti o assenti nei confronti dei ceti che contano: diventate severi se i livelli di illegalità “disturbano” l’equilibrio dell’illegalità nostrana.
Le vostre città vivono e prosperano con l’apporto degli stranieri, italiani e non. Siete stati assenti nel garantire il rispetto delle regole per gli studenti fuori sede, per gli immigrati lavoratori, per i turisti, per le prostitute di infimo bordo. Come sempre accade non avete iniziato dalla testa, ma dalla coda. Era più semplice sforbiciare gli estremi. Con le vostre iniziative vi ponete nell’antica tradizione della tutela dei benestanti: avrete consensi e il pensiero unico vi accompagnerà per le prossime amministrazioni.
Abbiate almeno il buon senso di non invocare giustizia, ma il diritto dei più a non essere disturbati. Così il prezzo della bottiglietta di acqua delle vostre città continuerà a salire nel prezzo; come il posto letto per lo studente fuori sede. Il costo dei parcheggi andrà alle stelle e le multe ingrasseranno le casse municipali. Gli immigrati lavoratori continueranno a vivere nelle stamberghe abbandonate e le prostitute povere avranno, finalmente, strade tutte loro. E se sono minorenni, pazienza.
Non occorreva essere geni per capire che i grandi movimenti di popolazioni avrebbero trascinato anche irregolari e delinquenti: avete invocato il libero mercato, lamentandovi poi delle sue distorsioni. Non si tratta di ingenuità, ma di furbizia.
Non è esattamente la politica sociale che sognavamo: ma ogni sogno invoca speranza e a questa continuiamo ad appellarci.

28/05/07

I genitori “adolescenti” che non hanno più coraggio

Prima l'on. Amato, ministro dell"Interno, ora l’on. Turco, ministra della salute, di fronte a gravi fatti di cronaca, propongono misure repressive nei confronti dell’uso della droga a scuola.
Questi due interventi, in qualche modo esterni al mondo giovanile e scolastico, dicono che la crisi è senza ritorno. Si vorrebbe - è l’opinione corrente degli ultimi anni – che siano le forze esterne (repressive ed educative) ad affrontare un problema che è invece tutto interno alla vita dei ragazzi.
Il rafforzamento delle misure repressive ha un qualche senso se l’educazione (che comprende anche il controllo) parte dalla vita complessiva del giovane.

Non da oggi le famiglie, regolari o ricomposte, si sono riappropriate dell’educazione esclusiva dei propri figli. Agli insegnanti ed educatori è stato sottratto il compito educativo: i genitori hanno detto loro che la vita dei propri figli è affare proprio, pronti a difenderli anche quando sono indifendibili. Vanno male a scuola? I genitori rispondono che è la scuola che fa schifo. Stanno male? E’ un problema che non li riguarda. C’è il sospetto che il ragazzo o ragazza consumi sostanze? Non si azzardino a fare insinuazioni. Conclusione: nessuno si avventura più su terreni che non siano quelli dell’insegnamento e della sola relazione conoscitiva. E i ragazzi lo sanno: per questo la scuola, gli ambienti culturali, sociali, ricreativi sono diventati terreno neutro per ogni ingerenza formativa.
Se la vita educativa del giovane è appannaggio della propria famiglia, se ne dovrebbe dedurre che i propri familiari siano i veri educatori. Così non è. Partecipando a infiniti dibattiti nella scuola e fuori, l’insistenza è per l’agio-disagio dei giovani; per i loro linguaggi; per il loro incerto futuro.
La conclusione di queste riflessioni sfocia in uno "psicologismo” che privilegia le modalità e non la sostanza della vita.

Ogni ragazzo deve sapere che cosa è bene e male; quali sono i confini della trasgressione; che cosa la vita riserva. Che l’apprendimento è fatica; che i valori perseguiti premiano, che la trasgressione può portare alla marginalità. Sono gli adulti che non hanno più il coraggio delle cose: sono stati invischiati nell’adolescenza dei figli, e sono rimasti essi stessi adolescenti.
Il figlio che non studia è un somaro; quello che vuole denaro senza fatica rischia la truffa; chi sogna cose grandiose senza apprendere nulla sarà un fallito.
Certo che si può e si deve mediare; non oltre certi limiti, perché non basterà l’esercito a raddrizzare il futuro. Talmente evidente che alcuni ragazzi e ragazze, coetanei di quelli problematici, apprendono le lingue, vanno all’estero per i master; si dedicano al mondo della solidarietà. Sembrano di un altro pianeta, eppure frequentano la stessa scuola

07/05/07

Solo offrendo legalità si può esigere legalità

Il quotidiano "la Repubblica” ha pubblicato oggi in evidenza (carta stampata e on line) la lettera di Claudio Poverini sul rischio del razzismo, con tanto di forum per chiedere il proprio pensiero. Rispondo volentieri.
La lettera inizia con “sono di sinistra”, termina con “… non voglio e mi opporrò con tutte le mie forze al dagli allo straniero. Ma voglio legalità, voglio la cultura della legalità in questo benedetto Paese, voglio che chi sbaglia paghi.”
Al di là della propria definizione ideologica, l'interlocutore e insieme Corrado Augias, vanno in corto circuito. Vogliono un popolo di immigrati bravi cittadini, come alcuni (non tutti) abitanti del nostro paese, senza chiedersi il perché di comportamenti scorretti e irriguardosi.
Per prima cosa verrebbe da chiedersi se c"è un effetto domino per chi è straniero in Italia: spinte, parolacce, qualcosa di peggio in metropolitana e fuori fanno parte da sempre della nostra “storia”, prima e oltre gli stranieri. Nella lettera non è scritto, ma il sottinteso è: visto che siete ospiti, dovreste essere riconoscenti, comportandovi bene. Una convinzione molto diffusa e sentita.
Forse sarebbe corretta se l’ospitalità fosse degna di questo nome. La legalità - e veniamo al dunque – esige parità di diritti e di doveri. Per esigere legalità occorre dare legalità. Senza giri in Italia e in Europa la legge non è uguale per tutti come si dichiara. Quale donna italiana lavora 24 ore al giorno, per sei giorni, per un migliaio di euro al mese? Nessuna: in Italia ne abbiamo una milionata. Quale operaio generico italiano lavora nell’edilizia o nell’agricoltura per tre o quattro euro all’ora? Nessuno e ne abbiamo qualche centinaia di migliaia. Perché si permette che delle minorenni straniere si prostituiscano senza che il cliente subisca alcuna conseguenza penale? Perché i Comuni tollerano che si affittino case fatiscenti, in nero, a prezzi esorbitanti? La lista potrebbe allungarsi. La conclusione è chiara: solo offrendo legalità si può esigere legalità.
A me sembra che destra e sinistra si stiano accartocciando al “centro” dove regna un antico adagio: sii esigente con gli schiavi, perché tu appartieni a un popolo nobile, garante di giustizia”.

12/04/07

Il volontariato torni alla bontà esigente

Occorre fare molti auguri ai rappresentanti del volontariato che si raduneranno a Napoli il 13 Aprile prossimo, chiamati alla quinta conferenza nazionale. Come sempre, saranno esaltati i numeri di quanti dedicano tempo e risorse per un qualche peso gratuito. L'ultima stima in Italia indicava in 3 milioni e trecentomila (Studio Ipsos 2006) coloro che abitualmente fanno volontariato.  21mila le associazioni (con 100 mila religiosi) che si impegnano in 292 mila piccole sezioni, triplicate rispetto al 1991.
Gli auguri sono necessari perché questo grande mondo di donne e uomini che offrono gratuità deve affrontare seri nodi del proprio futuro. Il primo, tutto esterno, dice che spesso il volontariato svolge funzioni di supplenza ai problemi ai quali il mondo istituzionale (governo, regioni, province, comuni) non risponde e non da oggi. Gli aiuti e i servizi per chi ha bisogno, nel nostro paese, sono scarsi e instabili. Il problema - si risponde - è quello delle risorse insufficienti. Sarebbe più corretto domandarsi per quali obiettivi le risorse sono impiegate; esse infatti non sono mai infinite. Si noti la discussione odierna a chi deve andare il gettito delle maggiori entrate: i forti stanno facendo la voce grossa. Da qui l"impegno affidato al volontariato a gestire iniziative, se non addirittura emergenze. Alcuni esempi sono sotto gli occhi di tutti: i servizi all’infanzia, agli stranieri, ai carcerati, agli anziani, ai malati, ai poveri sono affidati volentieri al mondo del volontariato, per non parlare di iniziative destinate ai ragazzi, al tempo libero, alla cultura. E’ forse una quindicina d’anni che tra istituzioni e volontariato si è instaurato un abbraccio perverso: l’ente pubblico si appella al volontariato; quest’ultimo si impegna nella gestione delle risposte in convenzione. Due sono i risultati negativi: l’ente pubblico si interessa sempre meno dei diritti delle persone deboli e bisognose; il volontariato diventa semplice esecutore (a basso costo) delle indicazioni dell’amministratore di turno. E’ uno dei motivi del ritardo con il quale alcune necessità nella nostra Italia non solo non sono state mai affrontate, ma nemmeno programmate. Le famiglie sono costrette ad arrangiarsi (due milioni le colf nelle famiglie) e se non possono, vivono nel degrado (i poveri sono una diecina di milioni).
Il mondo del volontariato deve liberarsi da queste impegni impropri per tornare ad essere quello per cui è nato.
Volontario è chi incontra i problemi: li percepisce prima di ogni altro perché, vivendoli sul proprio territorio, intuisce il nocciolo delle questioni. Agendo gratuitamente si fa portavoce della necessità di risposte adeguate a chi di dovere. Non chiede per sé, ma per chi ha bisogno. Può, per necessità, inventare risposte nuove, ma è consapevole di non dover fare all’infinito questo mestiere.
Le notizie che dicono che il mondo del volontariato è anche, in qualche modo, profit, essendo stimato il suo fatturato in 38 miliardi di euro e che nelle imprese sociali, a vario titolo, lavorano oltre 630 mila dipendenti, non sono consolanti.
Il rischio è di essere partecipi di abbandoni e di ingiustizie. Non permettendo ai problemi di esplodere, il volontariato si rende correo di mancanze e di parzialità. Con parole forti può diventare "utile idiota” di un sistema che fa dei deboli una parte marginale della vita collettiva, salvo recuperare la buona coscienza attraverso la gratuità e la generosità. C’è chi ritiene sia ingenerosa questa interpretazione della buona volontà di chi comunque dona tempo ed energie per gli altri. Non è in discussione evidentemente la generosità: occorre non dimenticare mai a che cosa serve e a chi giova, alla fine dei giochi, la bontà. Un eccessivo ricorso al volontariato nasconde una cattiva politica.
Auguriamo di nuovo ai partecipanti alla quinta conferenza sul volontariato di non fare le comparse nel teatro delle debolezze: di farsi invece ..

12/02/07

I Dico e la famiglia trascurata

Gentile Presidente, Gentili Ministre e Ministri, seguo a distanza la lunga discussione di questi giorni sui DICO. Credo che quest’ultima sia una iniziativa fuorviante, frutto non so di quali logiche ed esigenze. La famiglia italiana è gravemente malata – non da oggi – per tre grandi motivi che ne minano la base: la diminuzione del numero di famiglie costituite, la infertilità e la stabilità.
Nel mese scorso l’ISTAT ha pubblicato i dati sulle famiglie in Italia con riferimento al 2003. La diminuzione del numero dei matrimoni è costante dal 1999 al 2003: da 280.330 a 264.097. E’ stagnante l’indice di natalità già da vari anni, collocandoci al penultimo posto in Europa. Logica avrebbe voluto che questo “grave problema” fosse stato avvertito dal governo, offrendo un significativo pacchetto di sostegno economico e sociale alle famiglie. Nonostante la finanziaria, l’attenzione alla famiglia è oggi insufficiente a invertire il trend negativo.
Da questo punto di vista hanno ragione i Vescovi italiani a lamentare la scarsa attenzione; cosa che per la verità non hanno fatto con ugual forza con il precedente governo, nonostante avesse sostenuto ancor meno le famiglie.
Solo nel quadro di un fortissimo impegno per le famiglie avrebbe avuto senso “legiferare” anche sulle unioni di fatto, in quanto nuclei comunque significativi e rilevanti.
Che senso ha porre l’attenzione sul 5% dei diritti delle situazioni precarie, dimenticando la sostanza dei problemi? La sensazione esterna è che la lobby potente di pochi - come spesso accade - abbia rivendicato per sé diritti, dimenticando le condizioni reali dei più. Per un governo attento alle uguaglianze sociali si tratta di un errore grave.
Per quanto concerne la stabilità, è fuori bersaglio l’esortazione della gerarchia ecclesiastica a non legiferare su forme diverse di unione, quasi che l’eventuale silenzio statale possa ritardare la crisi delle famiglie regolari. Credo che l’intervento dello Stato possa essere solo marginale e non sostanziale.
La concezione della famiglia in Italia è già in cambiamento da dieci anni: metà delle famiglie italiane, in alcune parti del paese, non è più religiosa. Le separazioni che sono in costante crescita dal 1999 e che rappresentavano il 23,15% nel 1999 per arrivare al 30,95% nel 2003, possono essere solo in parte limitate da una forte politica di sostegno alle famiglie.
I matrimoni civili avevano raggiunto nel 2003 il 29,4% dei

15/12/06

Abbiamo perso il contatto con "sorella morte": lettera a Welby

Caro Piergiorgio, ho pensato molto in questi giorni, leggendo i tuoi appelli a morire, che cosa potesse dirti un credente che comprende che cosa significhi “la prigione infame del corpo”. Abbiamo vissuto in comunità molte storie simili alla tua: morti lente, inutilmente atroci, causate da malattie irreversibili.
Queste storie hanno significato per noi misurarsi con quel tipo di morte particolarmente feroce perché si avvicina senza fretta.
La vita è come il sole: sorge pieno di speranza, va su nel cielo splendente e poi tramonta. Per qualcuno il sole non è mai splendente perché la disabilità, la malattia “importante”, come dicono i medici,  rende triste, molto triste, il cielo.
Alcuni si lasciano andare: a volte imprecano, spesso sono sopraffatti da tristezza infinita. Altri reagiscono, chiedendo giustizia e solidarietà per realizzare i sogni, altri ancora fanno della loro vita un “segno” importante di dignità.
Quando la notte sta avvicinandosi, dopo aver combattuto per una vita, alcuni chiedono di morire: hanno dato già abbastanza. La fatica li ha stremati.
Noi li accompagniamo nella morte, impedendo che la medicina si accanisca per i pochi attimi in più che dice di garantire.
Ma tu hai posto un problema che va al di là della tua storia personale: hai chiesto se e quando è giusto dire basta. L’hai fatto per le tue idee e per la tua militanza.
Hai chiamato in causa la morte, evento che la scienza, la medicina, la cultura moderne ignorano: gli abitanti del primo mondo aspirano all’immortalità. Le discussioni non sortiranno grandi risultati: abbiamo perso la dimensione relativa della vita che il libro della Sapienza ha invano suggerito:
“La nostra vita passerà come le tracce di una nube,
si disperderà come nebbia

01/12/06

Addetti non profit: utili idioti?

Con una certa preoccupazione, ma sicuro di non essere distante dalla verità, constato che il cosiddetto mondo non profit sia oramai marginale rispetto alle politiche sociali.
Grandi e piccole organizzazioni del cosiddetto mondo non profit (associazioni e organizzazioni di volontariato, enti gestori) sono ininfluenti nelle scelte di politica sociale.
Vengono esaltati i numeri della loro crescita. L’ultima stima del volontariato in Italia indicava in 3 milioni e trecentomila (Studio Ipsos 2006) coloro che abitualmente fanno volontariato.  21mila le associazioni con 100 mila religiosi che si impegnano in 292 mila piccole sezioni, triplicate rispetto al 1991. Il mondo del volontariato è anche, in qualche modo, profit, essendo stimato il suo fatturato in 38 miliardi di euro.
Nelle imprese sociali a vario titolo lavorano oltre 630 mila dipendenti, che nel 70% dei casi ha un titolo di scuola media superiore.
La loro distribuzione nel territorio nazionale non è omogenea: il 60% opera al nord, il 19,3% al centro e il 20,7% al sud.
La domanda è che cosa oggi dica, in termini politici, questo mondo. La risposta secca è che contano poco, molto poco. Provo a dimostrare la tesi.

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