Stanno riemergendo, in queste ultime settimane, appelli perché la voce di semplici fedeli si faccia viva nello scenario religioso italiano. I Beati i costruttori di pace hanno lanciato sul web un appello da sottoscrivere; la rivista laicaMicromega, nel prossimo numero, proporrà un dibattito di quattro sacerdoti; un appello analogo è proposto anonimamente da docenti e non docenti di istituzioni ecclesiastiche.
Sembra una contraddizione perché mai, come in questo momento, la Chiesa cattolica appare compatta nella voce dei suoi Pastori e adulata e incoraggiata da forze "esterne", sia dichiaratamente cattoliche, che laiche.
Questi "sussurri" destano interrogativi. All'interno della Chiesa il dialogo dei cristiani è fin troppo coeso. Nessuna voce discordante, nessuna fantasia, nessuna voce critica. Gli studiosi (biblisti, teologi, moralisti) sono dediti ai loro studi sempre più lineari e scontati. Non hanno vie nuove da sondare: molti sono diventati specializzati in riassunti di dottrina consolidata. La vita delle Parrocchie scorre depressa; le Diocesi sono diventati luoghi amministrativi, la crisi delle vocazioni è sempre alta; dallo stesso Sinodo dei Vescovi non emergono grandi slanci e prospettive. Probabilmente la crisi di identità della Chiesa è più alta di quanto il consenso, utilitaristico e strumentale, dell'opinione pubblica dica.
Sembra che sia prevalente "la parola": una parola lontana, molto lontana dalla vita delle persone. Preoccupata dell'osservanza della dottrina, ma poco incline alla vita. Un verbalismo esasperato. Documenti, composizioni, trattatelli che non incidono su un cristianesimo oramai alla deriva. Confessando i ragazzi e gli adolescenti della cresima non è difficile capire che sono incerti. Non conoscono i termini della trasgressione (e quindi del peccato). Un cristianesimo "fai da te" che mescola devozioni, contraddizioni, parcellizzazioni senza grandi scrupoli. Sono figli di adulti cristiani che si dichiarano tali e anche pubblicamente, benché siano bigami, molto attenti al potere, liberi di dichiarare e non di essere, attenti ai vantaggi e non alla sostanza.
Di fronte alla deriva si elaborano parole, che diventano incomprensibili e arcane; teologicamente perfette e cristianamente inutili. Le parole cardine della fede si stemperano in scorribande di pseudo piani pastorali che nascondono, alla fin fine, un impianto anticonciliare, quello caratteristico degli anni '50 e '60, che vedevano nella Parrocchia un riferimento sicuro, educativo, incisivo. Un ritorno al passato che non è possibile, perché il mondo occidentale, in oltre quaranta anni, è cambiato. L'appello alla verità diventa sempre più intellettuale, astratto, scontato, dimenticando che il Vangelo è una proposta di vita e non di idee.
Al verbalismo esasperato - danno ancora peggiore - si aggiunge l'estetismo: degli atteggiamenti, delle croci, dei pettorali, dei colletti, dei canti, dei suoni, degli incensi. Con parole terribili si rischia il "teatro", nella speranza che l'appello all'immagine e ai simboli faccia il miracolo di un nuovo radicamento cristiano.
Purtroppo non è così: la crisi del cristianesimo occidentale è profonda e severa. La radice di tali crisi è il suo svuotamento. La vita di Cristo diventa biografia, i suoi appelli alla verità esortazioni; la sua radicalità scompare in virtù civiche, nemmeno vincolanti. Sembra che Hegel, con la sua filosofia dell'etica esteriore della legge, sia vincitore rispetto all'adesione profonda al messaggio evangelico.
Ogni messaggio cristiano ha valore se invoca coerenza, umiltà, misericordia, pace, giustizia, visione di Dio.
In caso contrario prevale, come sembra oggi, l'abbassamento degli interessi all'organizzazione Chiesa che, barcamenandosi, tende a sopravvivere. In tale contesto il popolo dei cristiani tutelano i loro interessi, scambiandoli in giochi molto umani, ma religiosamente ininfluenti se non dannosi. La santità è l'appello al vedere e al senti ...
14/11/05
24/10/05
Droghe: incapaci persino di repressione
L'annunciata conferenza sulle tossicodipendenze (Palermo 5-7 Dicembre 2005) sarà disertata da una consistente fetta di "addetti ai lavori". La Federserd, il Cnca, Saman, Exodus, i centri salesiani, la Lila, la Sitd, Itaca, Agesci, Arci, Acli, Forum del terzo settore, Movi, Arcadia hanno ritenuto inutile partecipare a una conferenza che non si sa di che cosa tratterà. La presunta offerta gratis di biglietti aerei non ha convinto nessuno.
Non è una presa di posizione "antigovernativa", ma la semplice constatazione del balletto di annunci, spot, confusioni, disinteresse, abbandoni, nonostante la drammaticità del consumo di droghe, soprattutto cocaina.
Gli ultimi cinque anni sono stati un calvario per chi opera nei servizi pubblici e nelle comunità terapeutiche di recupero.
I contenuti della riforma proposta dall'on. Fini (approvata dal Consiglio dei Ministri il 13 Novembre 2003) si sono perduti nell'ipotesi di uno stralcio (affermazione del Ministro Giovanardi) di cui a tutt'oggi pubblicamente nessuno conosce i contenuti.
Le competenze sono passate dal Commissario straordinario (Pietro Soggiu 2002), al Dipartimento nazionale politiche antidroga (istituito Aprile 2004), con una relazione al Parlamento ancora redatta dal Ministro Maroni e infine all'affidamento delle deleghe al Ministro Giovanardi.
I Direttori del Dipartimento delle Politiche antidroga sono stati in tre anni Nicola Carlesi, generale Antonio Ragusa (solo nominato), attualmente Raffaele Lombardo e di nuovo (per Palermo) Pietro Soggiu.
La conclusione è sostanzialmente l'impotenza, frutto di incapacità frammista a disinteresse.
Dialogare con un governo che non si raccapezza diventa dannoso, perché rischia di coprire un vuoto colpevole. La lotta alle dipendenze, se presuppone un orientamento di intervento, non può sciogliersi nel nulla. Le conseguenze sono evidenti. Le dipendenze da droga sono in espansione; i nuovi consumi mettono tutti in difficoltà, le carceri continuano ad essere piene di poveri cristi; la cultura dello sballo e del piacere dilaga, il traffico di stupefacenti è quanto mai prospero. Vanno di moda le cliniche svizzere e americane, ad alto coefficiente di spesa, per chi può permetterselo.
Così non si combatte nulla e nessuno. La responsabilità politica è alta, perché ad oggi la politica governativa è stata piena di parole e non di fatti, di annunci e non di sostanza. A noi il compito di riprendere le fila di un percorso interrotto da velleità giustizialiste. Crediamo anche si sia perduto troppo tempo.
Occorre ripartire dall'esperienza della strada: un momento di riflessione che sappia leggere l'evoluzione del consumo di droghe ed offra percorsi di recupero efficaci. Spiace doverlo fare da soli. Ma non ci sono date scelte, considerata l'inaffidabilità degli interlocutori.
Nel frattempo le vittime aumentano: sono soprattutto i giovanissimi che se non mettono a rischio la vita (si sono fatti più furbi) continuano a rovinarsi l'esistenza. Con loro sempre più numerose famiglie.
Non è una presa di posizione "antigovernativa", ma la semplice constatazione del balletto di annunci, spot, confusioni, disinteresse, abbandoni, nonostante la drammaticità del consumo di droghe, soprattutto cocaina.
Gli ultimi cinque anni sono stati un calvario per chi opera nei servizi pubblici e nelle comunità terapeutiche di recupero.
I contenuti della riforma proposta dall'on. Fini (approvata dal Consiglio dei Ministri il 13 Novembre 2003) si sono perduti nell'ipotesi di uno stralcio (affermazione del Ministro Giovanardi) di cui a tutt'oggi pubblicamente nessuno conosce i contenuti.
Le competenze sono passate dal Commissario straordinario (Pietro Soggiu 2002), al Dipartimento nazionale politiche antidroga (istituito Aprile 2004), con una relazione al Parlamento ancora redatta dal Ministro Maroni e infine all'affidamento delle deleghe al Ministro Giovanardi.
I Direttori del Dipartimento delle Politiche antidroga sono stati in tre anni Nicola Carlesi, generale Antonio Ragusa (solo nominato), attualmente Raffaele Lombardo e di nuovo (per Palermo) Pietro Soggiu.
La conclusione è sostanzialmente l'impotenza, frutto di incapacità frammista a disinteresse.
Dialogare con un governo che non si raccapezza diventa dannoso, perché rischia di coprire un vuoto colpevole. La lotta alle dipendenze, se presuppone un orientamento di intervento, non può sciogliersi nel nulla. Le conseguenze sono evidenti. Le dipendenze da droga sono in espansione; i nuovi consumi mettono tutti in difficoltà, le carceri continuano ad essere piene di poveri cristi; la cultura dello sballo e del piacere dilaga, il traffico di stupefacenti è quanto mai prospero. Vanno di moda le cliniche svizzere e americane, ad alto coefficiente di spesa, per chi può permetterselo.
Così non si combatte nulla e nessuno. La responsabilità politica è alta, perché ad oggi la politica governativa è stata piena di parole e non di fatti, di annunci e non di sostanza. A noi il compito di riprendere le fila di un percorso interrotto da velleità giustizialiste. Crediamo anche si sia perduto troppo tempo.
Occorre ripartire dall'esperienza della strada: un momento di riflessione che sappia leggere l'evoluzione del consumo di droghe ed offra percorsi di recupero efficaci. Spiace doverlo fare da soli. Ma non ci sono date scelte, considerata l'inaffidabilità degli interlocutori.
Nel frattempo le vittime aumentano: sono soprattutto i giovanissimi che se non mettono a rischio la vita (si sono fatti più furbi) continuano a rovinarsi l'esistenza. Con loro sempre più numerose famiglie.
27/06/05
Punto zero
Punto zero è l'espressione tipica che qualcuno o qualcosa non vale nulla. Abbiamo scelto questa espressione per contestare la "cultura" oggi prevalente nel sociale. Le risorse non ci sono è il ritornello che le amministrazioni periferiche e centrali recitano con sempre più insistenza. Si insinua così la filosofia che il poco denaro rimasto vada speso per qualcuno e qualcosa che "valga la pena". Il valer la pena significa che chi riceve (nel nostro caso il disabile, il malato, il periferico) risponda con qualcosa di positivo: la guarigione, l'integrazione, la risposta.
Noi sosteniamo la tesi che questa equazione non può esser fatta perché è indegna, crudele, pericolosa.
Indegna perché offende chi è costretto a ricevere, ma anche chi "dona". Che colpe possono essere attribuite a chi è nato male, non sta bene, ha bisogno di cure e attenzioni? La condizione di debolezza (anche quando si possono individuare delle responsabilità) non è mai punibile. La solidarietà di un popolo si esprime attraverso l'integrazione dell'aiuto: il sano per il malato, il giovane per il vecchio, l'abbiente per il non abbiente. La storia umana è stata possibile grazie a questa integrazione. D'altronde non possono esistere "naturalmente" gruppi e/o popoli composti da sani, giovani, forti, ricchi.
Nonostante questa convinzione, il rischio del ridurre all'essenziale le risorse per il sociale, quasi a volere risparmiare, è molto alto. A ben riflettere è la tentazione del potere sulla debolezza, espresso nella forma raffinata della limitazione delle risorse.
Noi sosteniamo la tesi che questa equazione non può esser fatta perché è indegna, crudele, pericolosa.
Indegna perché offende chi è costretto a ricevere, ma anche chi "dona". Che colpe possono essere attribuite a chi è nato male, non sta bene, ha bisogno di cure e attenzioni? La condizione di debolezza (anche quando si possono individuare delle responsabilità) non è mai punibile. La solidarietà di un popolo si esprime attraverso l'integrazione dell'aiuto: il sano per il malato, il giovane per il vecchio, l'abbiente per il non abbiente. La storia umana è stata possibile grazie a questa integrazione. D'altronde non possono esistere "naturalmente" gruppi e/o popoli composti da sani, giovani, forti, ricchi.
Nonostante questa convinzione, il rischio del ridurre all'essenziale le risorse per il sociale, quasi a volere risparmiare, è molto alto. A ben riflettere è la tentazione del potere sulla debolezza, espresso nella forma raffinata della limitazione delle risorse.
La tendenza al calcolo nel sociale è anche crudele. Logica "umana" vorrebbe che chi ha bisogno di aiuto debba essere aiutato. Infatti il forte, il sano, l'integrato resiste per propria energia. Abbandonare chi sta male significa approfittare della propria forza per se, senza la dovuta attenzione a chi è debole.
Infine la tendenza sopra descritta è pericolosa perché seleziona la specie in un sogno di delirio con il quale si vuole possedere il mondo efficiente per sé.
Infine la tendenza sopra descritta è pericolosa perché seleziona la specie in un sogno di delirio con il quale si vuole possedere il mondo efficiente per sé.
Queste riflessioni non sono generiche: riguardano la nostra realtà sociale. Ogni giorno ci vengono ripetute limitazioni per tutte quelle circostanze che hanno bisogno di sostegno. La disabilità, la malattia mentale, l'abbandono minorile, la carcerazione, la problematicità delle condizioni familiari della nostra gente e degli stranieri sono tutti terreni nei quali il calcolo è attivo. Con l'aggravante che solo per chi è in difficoltà viene invocato il risparmio e la limitatezza delle risorse, dando per scontato che le risorse, questa volta senza calcoli, debbano essere spese comunque per gli addetti ai lavori.
Combattiamo con tutte le nostre forze questa tendenza. Anche per chi è nelle condizioni di punto zero sogniamo un mondo solidale, felice, fraterno. Ci spendiamo per essere a fianco di quanti stanno in difficoltà: inseguiamo la loro felicità, ma anche la nostra, perché sogniamo un mondo vivibile per tutti, senza distinzioni.
Combattiamo con tutte le nostre forze questa tendenza. Anche per chi è nelle condizioni di punto zero sogniamo un mondo solidale, felice, fraterno. Ci spendiamo per essere a fianco di quanti stanno in difficoltà: inseguiamo la loro felicità, ma anche la nostra, perché sogniamo un mondo vivibile per tutti, senza distinzioni.
03/12/04
Un abbandono crudele e ingiusto
Tra le molte giornate "a memoria" di qualche patologia o evento "problematico", la Giornata della salute mentale del prossimo 5 Dicembre, non è inutile. Anzi: necessaria per il clima intorpidito che sembra avvolgere tutto il mondo della malattia e della disabilità, compresa la malattia psichiatrica. I manicomi sono stati chiusi, anche se resta la grande offesa dei manicomi criminali ancora funzionanti. La dolorosa esperienza della sofferenza psichiatrica ondeggia tra "i ricoveri" negli ospedali e nelle non numerose strutture protette e sempre più nelle cliniche psichiatriche e nell'abbandono delle famiglie.
Un prosieguo di riforma, dopo la celebre legge Basaglia, si è inceppato apparentemente sulla definizione della malattia e sui conseguenti interventi necessari, sostanzialmente per l'indifferenza verso forme patologiche croniche e dagli incerti risultati. Tutto il mondo della cronicità è oramai in balìa di se stesso, appena sopravvivendo là dove esiste. Nessuna consistente volontà ad affrontare definitivamente un problema serio di salute, dai risvolti caratteristici quali quelli del disturbo psichiatrico. Se l'intervento, privato e pubblico, è sufficiente all'inizio della malattia, diventa rarefatto e addirittura assente quando il crinale della malattia volge verso forme resistenti di patologia.
Le rare discussioni teoriche discettano - spesso accademicamente - sull'origine (biologica o sociale) del disturbo psichiatrico: nella concretezza delle risposte nessuno rifiuta il ricorso alla farmacologia accompagnato da interventi sociali capaci di alleviare la sofferenza e ridare prospettive di vita. La discussione dunque stucchevole sugli interventi necessari nasconde lo scarso interesse delle istituzioni e dell'opinione pubblica verso la malattia psichiatrica. Sopravvivono paura e allarmismi verso "la pazzia", anche se fortunatamente, grazie anche alla presenza di strutture riabilitative serie, i pregiudizi nel tempo si sono allentati. Si dimentica troppo spesso la sofferenza, personale e familiare, che la malattia psichiatrica porta con sé: l'intera vita (affettiva, relazionale, lavorativa e sociale) ne è compromessa. Non solo per chi ne è colpito, ma anche per l'intera famiglia.
Occorre riprendere il bandolo di un problema sanitario e sociale grave: anche perché il trend dice che, in una società particolarmente efficiente e veloce, il disturbo psichiatrico colpisce soggetti giovani. E la carriera della malattia mentale non è da augurare a nessuno, così portatrice di sventura, di solitudine e di dolore. Se la giornata avrà la capacità di rimettere al centro dell'attenzione uno dei problemi sanitari seri, una qualche speranza avranno coloro che soffrono di disturbi psichiatrici insieme alle loro famiglie. Altrimenti sarà un'occasione perduta e una responsabilità maggiore per un abbandono crudele e ingiusto.
07/09/04
Il traino benevolo
Associazionismo e politica
IN MOLTI HANNO NOTATO la recente rumorosa presenza dell'associazionismo cattolico e no sulla scena politica italiana: il meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, l'incontro di Loreto dell'Azione cattolica e del CSI, l'incontro imminente a Orvieto delle Acli, il convegno sul nuovo umanesimo della Comunità S. Egidio a Milano, l'incontro di Camaldoli della Rivista "Il Regno", la costituzione della "Retiinopera" a cui partecipano molte sigle dell'associazionismo comprese l'Agesci, la Cisl, il Forum del Terzo settore, il Forum delle famiglie.
Alla domanda centrale: per proporre chi e che cosa, le risposte ondeggiano e diventano vaghe. Tre dati: il primo riguarda il rapporto tra società civile e politica. Gli spazi sono azzerati: nessun rapporto strutturale tra istituzioni centrali e associazionismo è oggi in atto. I tavoli di concertazione inesistenti. Si preferiscono ammiccamenti e relazioni "amicali". Le risorse economiche sono al lumicino; le poche preesistenti drasticamente ridotte (si veda la cooperazione internazionale e il servizio civile). Il secondo dato è la politica estera in atto: l'Italia si distingue per la sua fedeltà ad azioni internazionali che puntano alla guerra preventiva, senza alcuna attenzione alla lettura e alla soluzione delle cause di guerra. L'Iraq e la Palestina ne sono purtroppo limpido esempio. Il terzo dato è la politica sociale in atto, di cui le leggi sull'immigrazione e quella sulle tossicodipendenze sono segnali eloquenti. Disprezzo e noncuranza contraddistinguono l'attenzione governativa ai ceti deboli della popolazione: gli esempi sono infiniti. E' sufficiente seguire le dichiarazioni dei vari Ministri che hanno una qualche attinenza con il sociale.
Riproponendosi a catena sulla ribalta politica, l'associazionismo che cosa cerca? Il cambiamento, il dialogo o, ipotesi più realistica, il traino benevolo? Un duplice moto sembra pervadere l'attivismo associativo recente: il primo, tutto interno, tende a dimostrare che le associazioni esistono. Per questo si convocano e si contano, facendo appello a tutte le residue risorse per apparire. Il secondo moto - più infido e pericoloso - cerca spazi di attenzione benevola da parte dei governanti. Ambedue i moti sono inutili e dannosi: così agendo tradiscono gli ideali per i quali le associazioni sono nate e soprattutto non incidono nella realtà politica. I temi scottanti indicati nella famiglia, nella pace, nell'economia sostenibile, nel federalismo, nella democrazia, nell'Europa hanno bisogno di ben altro che di dialoghi tra amici o presunti tali.
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14/07/04
Economia d'impresa, economia solidaria
La nostra agenzia, giovedì 8 luglio, ha dato notizia della lettera del premio Nobel Adolfo Péerez Esquivel alla famiglia Benetton per aver sottratto, con una sentenza di un giudice argentino, a una famiglia Mapuche in Patagonia, 385 ettari di terra che coltivava. La notizia è stata ripresa prima da "Repubblica" che ha dedicato due intere pagine alla questione: lunedì 12 luglio e martedì 13 luglio. Chi conosce l'America latina sa bene che il legislatore dei paesi di quel continente fa parte del ristretto gruppo di chi ha potere e dispone per legge ogni normativa a vantaggio dei potenti gruppi egemoni nel paese: così nel sistema bancario, in quello delle forze armate, dei latifondi, del petrolio e così di seguito. Nessuna meraviglia che ciò sia avvenuto anche per la Patagonia, con lo Stato argentino che vende a privati proprietà demaniali, nonostante la presenza di famiglie che in quelle terre sopravvivono. Nel sud del mondo non esiste nessun strumento di indennizzo, di mediazione, di risarcimento. Luciano Benetton ha risposto alla questione dichiarando che la "Compañia de Tierras Sud Argentino" ha agito rispettando le leggi e seguendo le regole in cui ogni imprenditore crede: "fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro". Il problema, al di là del dramma della famiglia allontanata, è proprio qui: chi ha stabilito che le regole dell'impresa valgono sempre e comunque in tutto il mondo? Lo ha stabilito la forza economica ed egemone dell'occidente, con le complicità dei potenti del luogo. Nell'era della globalizzazione chi ha denaro va, compra e agisce secondo le regole "internazionali" dell'impresa. La storia, le ingiustizie secolari, le economie locali, i drammi vengono ignorati: chiunque, per sopravvivere, deve adeguarsi ai nuovi orientamenti, senza eccezioni e senza obiezioni. E' la storia del Brasile, del Venezuela, dell'Africa e dell'Oriente. Eppure anche in America Latina stanno crescendo filosofie diverse per creare benessere. Le chiamano "economie solidarie", capaci cioè di realizzare prodotti, portare sviluppo, ma attente alle storie e agli equilibri delle persone e dei luoghi: consorzi, cooperative, crediti agevolati, rispetto dell'ambiente sono gli strumenti più conosciuti. Immaginiamo i sorrisini degli imprenditori classici di fronte a simili proposte, Sono sorrisi di commiserazione perché proposti da nostalgici pieni di "ideologismi", quasi che l'impresa non abbia "una sua" ideologia. Probabilmente se i principi dell'economia solidaria fossero fatti propri dai grandi gruppi finanziari avremmo un mondo un pochino meno evoluto, ma certamente più giusto. L'augurio è che se avverrà l'incontro tra Péerez Esquivel e Luciano Benetton, essi possano parlare di un "diverso" di sviluppo della "Compañia de Tierras Sud Argentino". C'è poco da scoprire in chi ha fame e soffre miseria: è semplicemente gente povera e per questo disperata. Aiutarla significa fare impresa: se si è bravi anche con profitto economico.
16/03/04
Nulla da discutere
Recentemente il governo ha chiesto di dialogare con le forze sociali, i sindacati e con l'opposizione su diverse materie: terrorismo, risparmio, pensioni, giustizia. Non sappiamo se il dialogo avverrà e con quali risultati.
Di certo nessuna compagine governativa ha chiesto di discutere di sociale. Pietra miliare della volontà politica rimane il combinato del decretone (269/2003) con la finanziaria 2004 che ha ridotto del 29% (da 1.716 a 1.215 milioni di euro) il Fondo nazionale complessivo per le politiche sociali, pur non avendo toccato la quota trasferita a Regioni e Comuni (896 milioni più i 100 originariamente destinati ai nuovi asili nido). Un taglio nemmeno compensato da provvedimenti a sostegno della maternità (2° figlio) e delle famiglie per l'accesso alle scuole private. In sostanza si è trattato di un travaso di risorse, con l'accortezza di nascondere la minore disponibilità.
Questi dati indicano, senza ombra di dubbio, che la sensibilità delle politiche governative sul versante del disagio e delle povertà è zero. L'attenzione politica è volta ad altri interessi e interlocutori. Anche i due interventi significativi sociali, quali l'immigrazione e le droghe, sono diretti infatti non ai soggetti interessati, ma al resto della popolazione che da questi fenomeni deve essere tutelata. Così sarà, tra poco, per la riforma psichiatrica.
Le conseguenze da trarre non sono difficili. Quel poco che rimane dei "tavoli" del welfare ancora in piedi non è nemmeno accademia. Chi, per motivi anche personali, vi partecipa perde tempo e denaro per il viaggio.
La cosa più grave è che non si avvertono all'orizzonte governativo né tentennamenti, né rimorsi. I poveri, gli esclusi, gli anziani, i non autosufficienti non fanno parte di attenzione politica: sono solo peso eccessivo - da cui le minori risorse - dei quali "purtroppo", per dovere istituzionale, occorre occuparsi.
Chi, nonostante i dati, insiste nel voler "dialogare" commette un duplice errore. Il primo è quello di dare credibilità a chi non fa nulla per meritarla; il secondo - gravissimo - è quello di tradire la causa per la quale lavora.
Nel dialogo infatti si presuppone la volontà politica di fare: il dialogo serve a discutere i modi e i destinatari dell'azione. Di fronte al disinteresse, sono gravi le apparenze di interesse. Né si aggiunga la circostanza della sopravvivenza (il celebre "qualcosa" da riportare a casa): di fronte al nulla, il qualcosa non esiste.
Di certo nessuna compagine governativa ha chiesto di discutere di sociale. Pietra miliare della volontà politica rimane il combinato del decretone (269/2003) con la finanziaria 2004 che ha ridotto del 29% (da 1.716 a 1.215 milioni di euro) il Fondo nazionale complessivo per le politiche sociali, pur non avendo toccato la quota trasferita a Regioni e Comuni (896 milioni più i 100 originariamente destinati ai nuovi asili nido). Un taglio nemmeno compensato da provvedimenti a sostegno della maternità (2° figlio) e delle famiglie per l'accesso alle scuole private. In sostanza si è trattato di un travaso di risorse, con l'accortezza di nascondere la minore disponibilità.
Questi dati indicano, senza ombra di dubbio, che la sensibilità delle politiche governative sul versante del disagio e delle povertà è zero. L'attenzione politica è volta ad altri interessi e interlocutori. Anche i due interventi significativi sociali, quali l'immigrazione e le droghe, sono diretti infatti non ai soggetti interessati, ma al resto della popolazione che da questi fenomeni deve essere tutelata. Così sarà, tra poco, per la riforma psichiatrica.
Le conseguenze da trarre non sono difficili. Quel poco che rimane dei "tavoli" del welfare ancora in piedi non è nemmeno accademia. Chi, per motivi anche personali, vi partecipa perde tempo e denaro per il viaggio.
La cosa più grave è che non si avvertono all'orizzonte governativo né tentennamenti, né rimorsi. I poveri, gli esclusi, gli anziani, i non autosufficienti non fanno parte di attenzione politica: sono solo peso eccessivo - da cui le minori risorse - dei quali "purtroppo", per dovere istituzionale, occorre occuparsi.
Chi, nonostante i dati, insiste nel voler "dialogare" commette un duplice errore. Il primo è quello di dare credibilità a chi non fa nulla per meritarla; il secondo - gravissimo - è quello di tradire la causa per la quale lavora.
Nel dialogo infatti si presuppone la volontà politica di fare: il dialogo serve a discutere i modi e i destinatari dell'azione. Di fronte al disinteresse, sono gravi le apparenze di interesse. Né si aggiunga la circostanza della sopravvivenza (il celebre "qualcosa" da riportare a casa): di fronte al nulla, il qualcosa non esiste.
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